Martone: “Capri-Batterie chiude una trilogia”

Il nuovo film di Mario Martone, Capri-Batterie, è il terzo capitolo di una trilogia di cui fanno parte Noi credevamo e Il giovane favoloso


Il nuovo film di Mario Martone, Capri-Batterie, è il terzo capitolo di una trilogia di cui fanno parte Noi credevamo e Il giovane favoloso. Il regista napoletano l’ha anticipato al Bif&st di Bari nel corso di una masterclass moderata dal critico Enrico Magrelli. Il nuovo lavoro uscirà a ottobre e per ora si sa soltanto che è ambientato nella Capri all’iinizio del Novecento. “E’ una trilogia del tutto casuale – ha spiegato Martone – non c’era nulla di programmato, è stato un vero work in progress che si è sviluppato attraverso gli anni. Quando con Noi credevamo scelsi di raccontare il Risorgimento, dell’800 non sapevo quasi nulla, da studente non mi aveva mai attratto, mi sembrava impolverato. Poi mi è venuto incontro con forza e leggendo alcuni libri di storia ho scoperto che la retorica che lo circondava era preventiva, che dietro l’immagine delle grandi battaglie c’erano tante cose. Realizzammo il film rifacendoci a tanti documenti storici, utilizzando lo stesso linguaggio dell’epoca, con una ricostruzione e riferimenti filologicamente inappuntabili, senza attualizzare nulla, andando contro i finanziatori che non erano convinti di ciò che stavamo facendo”. 

E Martone prosegue: “Con Il giovane favoloso ho voluto ristabilire la verità su chi era Giacomo Leopardi al di là dell’etichetta di poeta pessimista che gli viene da sempre attribuita. Era un giovane che non accettava i conformismi e gli schemi. In lui convivevano due tensioni, lo slancio e il disincanto. Ho trovato diverse affinità con Pasolini, anche lui non allineato, appena tollerato, anche censurato. La disperata vitalità di cui parlava Pasolini è la stessa che si ritrova nello Zibaldone di Leopardi”.

Quando il film uscì – all’inizio in pochissime sale – la gente fece la fila per vederlo e ne furono stampate sempre più copie. “Durante la lavorazione di Noi credevamo io mi sentivo guidato dalla voce di Leopardi, avevo già ritrovato nei suoi scritti gli slanci vitali di Mazzini e di altri rivoluzionari. Così decisi, dopo le riprese, di mettere in scena le Operette Morali ma anche in questo caso inizialmente nessun teatro lo voleva. Sennonché anche lo spettacolo, che era prodotto dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino, che dirigevo all’epoca, si rivelò un grande successo e fece il record di incassi. A quel punto pensai che potevo fare un film su Leopardi”.

L’aspetto figurativo di questi film è molto curato e si muove nel segno dell’autenticità. “C’è un grande lavoro di preparazione visiva, accade per tutti i miei film, prima di girare scatto diverse foto nei luoghi dove dovranno essere ambientati. E mi piace che siano luoghi autentici, che i muri siano effettivamente muri e non cartapesta, che trasudino vera umidità, che gli attori si muovano e agiscano in ambienti veri. Certo, non sempre è possibile, come quando per Noi credevamo dovevamo ambientare una scena nel carcere di Montefusco, in Irpinia, che però era stato restaurato e non restituiva più l’immagine dell’epoca. Anche in quel caso, però, chiesi alla produzione, che suggeriva di ricostruire l’ambiente in uno studio di posa, di girare in un carcere vero, quello di Bovino, proprio qui in Puglia. Per Il giovane favoloso, quindi, una gita a Recanati mi aveva fatto scoprire un luogo incantato, rimasto immutato nel tempo, che per me si è tradotto in desiderio di cinema”.

A giugno, a Napoli verrà inaugurata una mostra – o un “film flusso” com’è stato definito – a lui dedicata, 1977-2018. Mario Martone Museo Madre con materiali provenienti dal suo archivio personale. “Ho iniziato a fare teatro a Napoli a 17 anni in un periodo, la fine degli anni ’70, che non erano solo gli anni di piombo ma che ha rappresentato anche l’ultimo momento di grande esplorazione artistica, in cui c’erano vitalità, libertà e varietà. C’erano ancora Eduardo e la sceneggiata ma tante altre opportunità come quella di frequentare la galleria di Lucio Amelio, che portava a Napoli le opere degli artisti più importanti dell’avanguardia artistica internazionale e c’era la Cineteca Altro di Mario Franco, dove si potevano vedere i classici insieme alle correnti emergenti come il nuovo cinema tedesco. E poi tanta musica, tanta danza, tutto si mescolava e ti dava la possibilità di fare quello che ti veniva in testa e di condividerlo con altri. La mia storia, in questo senso, è parallela a quella di Toni Servillo con il quale in seguito ci siamo legati nei Teatri Uniti, insieme anche ad Antonio Neiwiller. I miei primi spettacoli erano performance, non c‘erano dialoghi, in qualche caso neppure attori. Il cinema era ben presente, nel senso che proiettavamo super8 o diapositive durante gli spettacoli, praticamente era un cinema senza macchina da presa, stavamo creando un linguaggio nuovo. Poi però la contaminazione tra cinema e teatro non mi è bastata più, è iniziato un mio rapporto con il testo e con la parola, il mio teatro si è prosciugato e si è creato un divario con il cinema. A quel punto si è aperta l’opportunità di girare un film e abbiamo fatto, con la stessa cooperativa teatrale che avevamo fondato, Morte di un matematico napoletano”.

Infine una confidenza inedita: “Alla vigilia delle riprese di ogni mio film ho un piccolo rito, quello di riunire i collaboratori più stretti e vedere, insieme a loro, un film da me scelto. L’unica eccezione fu per L’odore del sangue. Che infatti andò male!”.

Cristiana Paternò
26 Aprile 2018

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