Laurent Cantet: “La generazione perduta di Cuba e il presente incerto della Francia”

Il regista francese Palma d'Oro è alle Giornate degli Autori con Ritorno a L'Avana


VENEZIA – Sono passati 16 anni da quando Amadeo ha lasciato L’Avana per andare in esilio. Sono passati 16 anni da quando non rivede più i suoi amici Tania, Eddy, Rafa e Aldo, con cui ha condiviso ideali, amicizia e illusioni nella Cuba della loro gioventù. Ora li ritrova su una terrazza, nel corso di una lunga notte di festa e malinconia, sogni spezzati e amare consapevolezze. Il regista francese Laurent Cantet, Palma d’Oro a Cannes nel 2008 con La classe, è rimasto talmente folgorato dalla sua esperienza per il film collettivo Sette giorni a L’Avana da voler tornare sull’isola per riflettere sulle sue contraddizioni. È nato così Ritorno a L’Avana, una sorta di Grande freddo cubano innervato di una tensione intimamente politica, che ha presentato in prima mondiale alle Giornate degli Autori.

Inizialmente doveva essere un cortometraggio firmato a quattro mani con lo scrittore cubano Leonardo Padura, ma il materiale era così esondante da rendere feroce il limite di 15 minuti. Tutto ambientato su una terrazza, Ritorno a L’Avana è interpretato da Isabel Santos, Jorge Perugorrìa, Néstor Jiménez, Fernando Hechevarrìa e Pedro Julio Dìaz e uscirà nelle sale italiane con Lucky Red.

Questo film è un ritorno a Cuba per lei, come è andata?

All’epoca di Sette giorni all’Avana avevo cominciato a lavorare con Leonardo Padura sull’idea del ritorno di un esiliato che ritrova la sua banda di compagni e che fa il punto sui 15 anni che sono passati, su ciò che è successo a loro e al loro Paese, sulle loro disillusioni, su ciò che rimane del loro impegno passato. Avevo già cominciato a fare un piccolo casting, avevo riunito in modo un po’ arbitrario degli attori cubani per conoscerli e con loro ho fatto una mezza giornata di improvvisazione sui temi che iniziavamo a sviluppare nella sceneggiatura. Così abbiamo ascoltato le loro storie per mezza giornata, erano talmente forti e commoventi, talmente impregnate della loro vita, che mi è sembrato importante lasciar loro il tempo di raccontare le loro storie. Così io e Leonardo Padura ci siamo impegnati reciprocamente a riprendere le fila di questa storia, una volta portati a termine i nostri altri impegni.

Ritorno a L’Avana
si concentra su un periodo storico molto preciso…
Abbiamo lavorato su una generazione che Padura chiama la “generazione perduta”, che è nata con la Rivoluzione, ne è stata formata, ci ha creduto intensamente, ci si è sporcata le mani. Le persone che appartenevano a quella generazione stavano per impegnarsi nella vita pubblica cubana proprio quando è caduto il muro di Berlino e l’Unione Sovietica ha smesso di mandare denaro. Il Paese è sprofondato in rovina e questo ha permesso al potere di irrigidirsi di fronte alla crisi. Nel film descrivo proprio gli effetti di questi eventi: quella generazione oggi è una delle più disperate. Sono persone che hanno creduto fortemente in certi valori e ora sentono di aver tradito i loro ideali, oppure di essere stati traditi. Tutto ciò è rappresentato da Aldo, il personaggio più nero e disperato del film.

Probabilmente però restituiscono un senso di disillusione che non riguarda solo Cuba.
Aldo dice “lasciatemi credere”, si aggrappa a un ideale: è in questo che il film supera la realtà cubana e ci parla anche di noi europei. Io ad esempio sono entrato in una fase in cui sento di avere più nostalgia degli ideali, che ideali.

Non aveva qualche timore nel descrivere una realtà così delicata, in quanto straniero?
Ho vissuto come una grande responsabilità il fare un film sui cubani e le loro storie intime e politiche, ma mi ha confortato l’idea di non essere lì per dare un’opinione sulla situazione, quanto per dare la parola alle persone. Il mio lavoro è stato catturare le storie, piuttosto che ricostruirle.

È interessante anche la forma di questo film, che ha unità di tempo e di luogo, come a teatro.

La forma teatrale si è imposta molto velocemente perché bisognava concentrarsi sulle storie, su ciò che queste persone avevano da dire. Il modo migliore di farlo era concentrarsi su di loro, guardarli con attenzione. All’inizio pensavamo di muovere lo sguardo tra le strade de L’Avana e di ampliare il tempo del racconto, poi abbiamo capito che non dovevamo disperderci, che serviva l’umiltà di rimanere attaccati al testo. Infine per me era importante che la forma teatrale fosse ammorbidita da un modo di parlare molto quotidiano, non letterario.

Questo lavoro sembra piuttosto diverso dai suoi precedenti, ma allo stesso tempo è in continuità con la sua filmografia.
I miei film sono sempre storie di gruppo che raccontano le difficoltà a trovare il proprio posto nel mondo, ma contemporaneamente sottolineano la forza dell’amicizia e la necessità di non sentirsi soli al mondo. E poi c’è il confronto con un ideale, che è qualcosa che ricorre in tutti i miei film. In Ritorno a L’Avana c’è tutto questo.

Ha raccontato la generazione perduta di Cuba, ma lei in Francia come si sente in questo momento?

Questo film mi sembra che descriva un po’ la stessa vertigine che posso provare io ora in Francia, un luogo in cui si ha la sensazione di stare andando contro un muro. Mi sento allo stesso tempo molto coinvolto da ciò che succede, e completamente estraniato. Penso che questo futuro così incerto somigli a quello che i cubani intravedono.

Il prossimo film sarà di nuovo all’estero o tornerà in patria?

Dovrei farlo in Francia, anche perché altrimenti la mia famiglia esplode. In ogni caso, anche se mi interessa molto girare all’estero, ho l’impressione che la realtà francese ora presenti tantissimi punti di interesse ed elementi da guardare con attenzione.

Michela Greco
03 Settembre 2014

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