Roberto Minervini: dal Lincoln Center alla violenza in Louisiana

Il regista marchigiano, texano di adozione, racconta a CinecittàNews i suoi prossimi progetti. In particolare un film girato in un ghetto bianco nella Louisiana del Nord


NEW YORK – L’anno scorso era al Festival di Toronto, oggi – dopo aver accompagnato il suo Stop the Pounding Heart da Cannes a Londra, da Torino a Bologna e Parigi – lo ritroviamo a New York, ospite d’onore con la ‘Texas Trilogy’ della prestigiosa Film Society del Lincoln Center. La proiezione dei suoi film (oltre al succitato anche The Passage, del 2011, e Low Tide, 2012) è un’occasione, per lui, di incontrare il pubblico statunitense e, per noi, di scoprire qualcosa di più sullo stato dei suoi prossimi progetti.  

Che effetto fa una personale al Lincoln Center di New York, dove sono passati molti ‘mostri sacri’ italiani? Come è nata?

Stop the Pounding Heart era stato invitato al festival New Directors/New Films nel marzo scorso e lì sia il MoMA sia il Lincoln Center si erano mostrati interessati a organizzare un’uscita in sala del film, ma anche – entrambi – alla trilogia stessa. Per come la vedo io, il Lincoln Center non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo. E cosi insieme al distributore abbiamo optato per loro. A Dennis Lim, direttore del Film Department, sono piaciuti molto i tre film e così abbiamo potuto avere finalmente la prima proiezione in sala di tutti e tre. E’ stato emozionante trovare un palcoscenico così importante e un pubblico tanto preparato.  


Ha riscontrato reazioni particolari?

Quella che è emersa è stata soprattutto una sorta di presa di coscienza, da parte del pubblico, quasi completamente statunitense, del fatto che gli americani delle due coste Est e Ovest forse conoscono l’entroterra meno di quanto la conosca io dopo sette anni di ricerca sul territorio. C’è stato uno scambio di opinioni riguardo qualcosa che io sospettavo da tempo e che ho notato che il pubblico riconosce e apprezza nei miei film. Proprio perché in effetti sono film informativi per gli americani stessi.  

Accettano che tutto ciò venga narrato da un non americano?

Penso di sì, perché io non sono un outsider. Di fatto sono un insider, forse con la sensibilità dell’outsider. Sono quattordici anni che vivo negli Stati Uniti e dopo i sette anni in Texas sono perfettamente integrato. In fondo tutto è partito – con The Passage – dal fatto di avere un amico bluesman che mi ha permesso di accedere a luoghi e persone inaccessibili ai più.  

Adesso che torna a montare il suo prossimo film, sugli uomini della Louisiana, conferma quello che disse un anno fa, che si tratta di “un film estremo, su sesso e violenza”?

Più o meno sì; la storia come sempre si è evoluta, ma ci siamo. Sono andato nella Louisiana del nord, quella tra Texas e Arkansas, in particolare a West Monroe che è come la West Bank di Gerusalemme perché è il ghetto bianco di Monroe, città nera. Una di quelle ex zone rurali che, come avviene spesso negli Usa, si trasformano in culle della produzione di metanfetamina. Mi sono trovato in comunità devastate dalla droga e dalla disoccupazione e ho lavorato – e in questo la storia è cambiata – anche con organizzazioni paramilitari e antigovernative, due realtà che convergono a livello politico, proprio per il fervore con cui si scagliano contro il governo federale. E’ un film sul libertarismo estremo nell’America del Centro-Sud.  

Ha avuto qualche problema in più stavolta, o pensa di poterne avere, in quanto ‘cittadino americano’?

Questa è la prima volta in cui me lo sono chiesto anche io, ma credo di no. Credo che attualmente sia il mio film più rilevante dal punto di vista sociopolitico in America, dove la sfaldatura tra governo centrale e la maggior parte del Paese ha raggiunto massimi storici. La ferita del Sud, diviso e unito forzatamente agli altri Stati, non si è mai davvero sanata. E le due cose si sommano. Politicamente sarà un film ‘bomba’.  

Ha già contatti o accordi per quello che sarà, soprattutto dopo il passaggio al Lincoln Center?

Per la prima volta ho lavorato non da solo, ma con dei produttori, italiani e francesi. E con istituzioni come Rai e Arté che mi supportano. Il film verrà distribuito in Italia e in Francia, per il resto c’è da aspettare. Anche per i festival, per i quali ci sono trattative in corso.  

Tornerà a Cannes?

Per me la scelta è sempre tra Cannes e Venezia, poi si vedrà.  

Sono ormai abbandonati gli altri progetti, come quello sugli immigrati messicani?

Non abbandono mai i miei progetti, sono sempre nel cassetto, ma mi è sembrato opportuno iniziare questo lavoro che sto ultimando. Esiste comunque il progetto sugli immigrati, come quello sui veterani di guerra, che vivono alla stregua degli immigrati in completo abbandono. Ma ne esistono altri, da valutare, come anche quello che dovrebbe riportarmi in Italia.  

Ci sono novità rispetto agli accenni dati allo scorso Festival di Toronto?

Con il mio amico Maurizio Braucci, sceneggiatore tra gli altri di Gomorra e Pasolini, stiamo discutendo di un’idea che interesserebbe entrambi. Valuterò con calma il da farsi.  

Resterà fedele al suo particolarissimo stile documentaristico?

Sì, l’approccio sarà sempre dello stesso tipo: lavorerò con gente del posto, vera, utilizzando un linguaggio ibrido.  

Si torna a parlare della Campania? Delle zone rese famose da “Gomorra”?

Sì, anche se probabilmente inserite in un contesto più ‘originale’, affascinante e molto intimo. Per ora stiamo muovendo i primi passi, ma sono ancora pochi visto che sono impegnato da agosto a Bruxelles nel montaggio del nuovo film. A me piacerebbe girare, e passare subito al successivo. Se potessi, continuerei a girare e lascerei ad altri il montaggio e il resto del lavoro.  

Che tempi prevede per le prossime fasi e il completamento del film?

Il montaggio terminerà a metà novembre, il film più o meno dovrebbe essere pronto a marzo.        

Mattia Pasquini
30 Settembre 2014

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