Wim Wenders: “Com’è intimo il 3D”

Il regista tedesco ci parla del suo nuovo progetto, Every Thing Will Be Fine, che sarà pronto nel 2015. È la storia di una famiglia raccontata nell’arco di 14 anni a partire da un lutto


Non “troppo belle”, ma troppo umane sono le fotografie di Sebastiao Salgado come le racconta Wim Wenders nel suo documentario Il sale della Terra, proposto al Festival di Roma, dopo l’anteprima a Cannes, dove ottenne il Premio speciale Un Certain Regard, mentre il 23 ottobre sarà in sala con Officine Ubu. “Quando si fotografa la miseria e la sofferenza, bisogna saper dare dignità al proprio soggetto per evitare il voyeurismo – dice il regista tedesco – Non è facile e si può riuscire solo a patto di calarsi completamente nella vita e nella miseria di questi soggetti. Sebastiao trascorre del tempo con le persone che fotografa, vive insieme a loro, prova empatia per loro”. Wenders domani sarà protagonista di un incontro con il pubblico al Maxxi per Wired Next Cinema, intanto oggi parla del film, realizzato insieme al figlio di Sebastiao, Juliano Ribeiro Salgado. Il documentario segue il lavoro dell’artista brasiliano chiamato a commentare, non senza dolore, i suoi scatti straordinari: è stato ovunque nel mondo per testimoniare conflitti, genocidi, carestie, migrazioni o il lavoro nella sua forma più arcaica e violenta di schiavitù. Ma oggi la sua ricerca ha preso un’altra strada, quella ecologista, che si esprime sia con Genesis, omaggio allo splendore del pianeta e alla natura (fino al 2 novembre in mostra al Palazzo della Ragione a Milano), sia con il progetto dell’Instituto Terra e con la riforestazione in Amazzonia portata avanti insieme alla moglie Lelia, costante collaboratrice. E di lui Wenders dice: “Meriterebbe il Nobel per la pace, anche se ne sarebbe turbato perché vuole scomparire dietro alle sue foto”. 

Come è avvenuto l’incontro tra lei e Salgado?

Conosco il lavoro di Sebastiao da circa 25 anni, molti anni fa avevo comprato due stampe che ho appeso sopra la mia scrivania. Ispirato da quelle foto andai a vedere la mostra “Au travail”. Ma di persona l’ho incontrato circa sei anni fa alla Fondazione Solares a Parigi. Quando ci siamo visti le prime volte non pensavo a un film, lui era nel mezzo del progetto Genesis e abbiamo iniziato a parlare, anche di calcio di cui siamo entrambi appassionati. Poi è venuto fuori il discorso di come Genesis o altri suoi lavori potessero esistere in altra forma rispetto alla mostra o al libro, ad esempio in uno slide show. Conoscendolo meglio mi sono reso conto che è un fantastico narratore. Un giorno mi ha chiesto se volessi accompagnare lui e suo figlio Juliano in viaggio, avevano bisogno di un punto di vista esterno. E l’ho fatto.

Da questa esperienza ha appreso qualcosa che userà nel suo lavoro?
Non c’è una cosa concreta che io abbia imparato, ma ho avuto enormi lezioni da lui. La più importante riguarda la sua radicalità, il saper fare delle scelte e assumersene tutta la responsabilità. Quest’uomo aveva davanti una grande carriera come economista e l’ha lasciata per la fotografia, non credo che in molti l’avrebbero fatto. Ha smesso di fare fotografie quando ha realizzato che non era più in grado di sopportare tutto il dolore e la sofferenza che aveva visto. In seguito ha scoperto la natura come fonte di ispirazione e ha saputo di nuovo reinventare se stesso. L’altra sua lezione riguarda il rapporto con il tempo. Ogni suo progetto richiede anni, a volte un decennio, di impegno costante.

Che rapporto c’è tra lui e sua moglie Lelia?
Lei è la sua forza propulsiva, è stata lei a incoraggiarlo a diventare fotografo. Sempre lei l’ha lasciato viaggiare per tanto tempo pur avendo loro due figli. Inoltre è lei che fa le ricerche, che si occupa delle pubblicazioni. È veramente la sua metà.

Lei sembra sempre più interessato all’osservazione del farsi del processo creativo. In opere come Pina, su Pina Bausch, o Il sale della Terra c’è anche un elemento di autocoscienza dell’artista?
Il processo artistico è una delle poche avventure che ancora possiamo vivere nel mondo contemporaneo. Abbiamo viaggiato dappertutto, ma la creazione è un’esplorazione ancora aperta. Mi ha sempre interessato questo aspetto, ho fatto film su coreografi, creatori di moda e musicisti, cercando di capire il loro modo di lavorare e me stesso attraverso di loro.

Come ha conciliato un’arte statica come la fotografia e una dinamica come il cinema?
La sfida del film era di dare vita alla fotografia. Per fare questo ci voleva una storia, ma Sebastiao, come dicevo prima, è un grande narratore e le storie che raccontava sono servite a proteggere le foto e farle vivere. Questa è stata la chiave del film.

Come funziona la camera oscura in cui avete girato parte delle conversazioni?
È uno spazio chiuso in cui lui era di fronte alle sue foto e allo spettatore, attraverso uno specchio semitrasparente, quindi lui vedeva le foto ma non la camera, mentre noi potevamo filmarlo. In un certo senso, ho fatto questo film due volte. La prima in modo tradizionale, con noi due seduti a parlare, finché non ho capito che lui cambiava completamente quando guardava le sue foto, era un altro.

Qual è stato il contributo di Juliano Salgado?
Juliano aveva accompagnato suo padre in numerosi viaggi nel mondo, in Guinea, Siberia e Papuasia girando ore e ore di filmati io. Era un materiale vastissimo che abbiamo dovuto imparare a montare insieme.

Lei sta lavorando a un nuovo film di finzione, Every Thing will be fine, a sei anni da Palermo Shooting. Un film in 3D, come Pina, con James Franco, Charlotte Gainsbourg, Rachel McAdams. Ci vuole tanto tempo a mettere in piedi un film?

Il processo di realizzazione di un film non documentario sta diventando sempre più complesso. Una volta, quando ero più giovane, facevo un film all’anno. Ora ci riesce solo Woody Allen, per me ci vogliono quattro, cinque anni. Ho iniziato a girare Every Thing in Canada mentre stavo realizzando Pina, ora ho finito il montaggio ma ci vorranno altri sei mesi di postproduzione, che è più lenta del normale col 3D. Come insegna Salgado, bisogna prendersi il tempo che ci vuole, e ora voglio dare alla finzione lo stesso tempo che dò ai documentari.

Che storia racconta il film e perché il 3D?
È la storia di una famiglia raccontata nell’arco di 14 anni. Una storia intima, James Franco è Tomas, uno scrittore che causa accidentalmente la morte del figlio in un incidente d’auto e che passa la vita esaminando gli effetti della tragedia su sua moglie Kate, la mamma del bambino. Il 3D permette di andare ancor più a fondo nella storia. Quando ho iniziato a lavorarci pensavo che ci sarebbero stati tanti altri film intimi girati in 3D, ma per ora mi sono sbagliato. 

18 Ottobre 2014

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