Richard Gere, dalla parte degli invisibili

L'attore americano è a Roma, ospite del Festival, e ci parla di Time Out of Mind, il film di Oren Moverman in cui si cala nei panni di un homeless newyorchese


Persino un divo come Richard Gere diventa invisibile nella grande metropoli se gli indaffarati passanti lo credono un clochard. “La gente che ti vede a due isolati di distanza, con addosso abiti laceri e in mano un bicchiere di carta per chiedere la carità, decide da subito di evitarti, di non incrociare neppure il tuo sguardo, come se il tuo fallimento fosse contagioso”, ci dice l’attore americano, ospite del Festival di Roma. Gere ha fortemente voluto questo ruolo di un senzatetto chiuso nel suo mutismo, che viene spiato dalla macchina da presa di Oren Moverman per due intense ore in Time Out of Mind, in concorso in Cinema d’oggi. Lo sceneggiatore e regista israeliano, autore di Oltre le regole – The Messenger (candidato all’Oscar per la sceneggiatura) pedina il barbone George senza dirci nulla del suo passato, dei motivi che l’hanno portato a vivere in mezzo alla strada, senza documenti e indifeso. A brandelli scopriamo che aveva una moglie che è morta di cancro e che sua figlia, ormai adulta, lo odia. Non lavora e negli ultimi dieci anni si è arrangiato facendosi ospitare da qualche donna incontrata per caso. “Lei è un bell’uomo”, gli dice l’assistente sociale che lo interroga per decidere se accettarlo nel centro di accoglienza dove avrà diritto a un giaciglio e ai buoni pasto perché a New York c’è una legge che tutela i senza fissa dimora.

Sorridente e rilassato, l’ex ufficiale e gentiluomo sorseggia un tè durante la conferenza stampa e si diverte per l’apparizione di un pipistrello che svolazza nella sala: “In questo momento tutta l’attenzione è per lui, più che per me, chissà cosa penserebbe se lo sapesse”. E quando gli fanno una domanda su Papa Francesco, risponde tranquillo: “Non sono cattolico e non saprei che dire”.

È vero che lavora a questo progetto da molti anni?
Ho letto la prima sceneggiatura dieci anni fa, ma in quel momento non mi sentivo adatto al personaggio. Poi l’ho ripresa in mano adesso e ho trovato una perfetta corrispondenza con l’attualità, così ho deciso di acquisire i diritti. Avevo letto The Land of the Lost Souls: My Life on the Streets di Cadillac Man sulla vita di strada a New York raccontata da un clochard. Nel film abbiamo cercato uno stile simile, semplice e secco. Quando ho proposto a Oren Moverman, che avevo conosciuto sul set di I’m not there di Todd Haynes, che lui aveva scritto, ci siamo trovati subito sulla stessa lunghezza d’onda e ci si è buttato a capofitto.

Ha fatto ricerche sull’argomento?

Certo, ho visitato vari centri d’accoglienza, ma soprattutto mi ha sorpreso l’esperienza di stare per strada. Abbiamo girato il film in 21 giorni con tempi strettissimi. La nostra idea era che la macchina da presa fosse invisibile e lontana da me. All’inizio non sapevamo se sarebbe stato possibile per me stare per strada senza essere riconosciuto. Dopo la prima giornata di prove al Greenwich Village, ci siamo resi conto che nessuno mi ha notato. In una via del centro piena di gente, nessuno ha incrociato lo sguardo col mio. Così mi sono calato pienamente nella realtà degli invisibili, che suscitano rabbia nelle persone perché evocano il fallimento e noi non vogliamo avere nessun contatto con loro.

Cosa si prova a chiedere l’elemosina?
Io non ho bisogno di soldi o di cibo quindi non posso davvero immedesimarmi in un barbone. Ma anche la tradizione buddista tibetana, a cui appartengo, prevede che si tenda la mano per chiedere qualcosa agli altri anche se con una motivazione completamente diversa. Un accattone chiede soldi per se stesso, per comprare cibo, alcol o droga, mentre il monaco buddista offre all’altro la possibilità di dare un’offerta e quindi di creare per sé uno stato positivo. 

Ma è possibile che nessuno l’abbia mai riconosciuta?

Sì, è così. Solo due neri alla Grand Central Station, entrambi hanno avuto la stessa reazione, mi hanno semplicemente detto: ‘Ciao, Rich, come va?’ Forse l’esperienza di essere neri a New York li rende più attenti a quello che accade intorno, sono meni chiusi dei bianchi, che camminano pensando alla loro destinazione. La maggior parte della gente è completamente isolata, vive guardando il suo cellulare o con le cuffiette.

Il film mostra in modo molto dettagliato la situazione dei senzatetto a New York, sia l’indifferenza dei cittadini sia il sistema di previdenza pubblico. 
Ci sono 60mila homeless tra cui 20mila bambini, sono cifre impressionanti. New York, d’altra parte, è l’unico posto in America dove per legge i barboni devono ricevere assistenza. Se superi tutti gli intoppi burocratici, ti spetta un letto e due pasti al giorno. C’è una legge che lo stabilisce dalla fine degli anni ‘80. Ora vorrei contattare qualche Ong anche a Roma per sapere cosa succede qui.

Crede che il film possa avere un significato più universale?
Non penso che parli solo del mondo dei senzatetto. C’è un forte desiderio di appartenere a qualcosa e a qualcuno, di trovare il proprio posto nel mondo, il gruppo di persone delle quali fidarsi e questo ci riguarda tutti. Non vedo nessuna differenza tra chi vive per strada e tutti noi. Cosa si intende per casa? Questo villaggio, questo pianeta, l’universo intero?

Avete scelto di dire pochissimo di George e tutto quello che veniamo a sapere sulla sua storia lo scopriamo quasi per caso.
All’inizio la sceneggiatura raccontava troppo di lui. Ma non andava bene. Non è importante tutto quello che è accaduto prima, perché se guardo attentamente posso cogliere la storia di ognuno di voi in questo preciso momento. È difficile essere qui, vivere il momento presente. Bisogna essere concentrati e impegnarsi. Le informazioni su George non ci vengono date in maniera facile, nella prima scena, perciò dobbiamo fare uno sforzo. 

Questo film è molto diverso dai suoi precedenti, ha avuto qualche difficoltà specifica?
La tecnica di recitazione è la stessa: si tratta di tirare fuori il personaggio e sparire perché possa emergere. Ma è vero che questo film è diverso dagli altri perché non dipende dalla trama. Qui si parla di sentimenti, di come ci si sente quando si è fuori dal tempo. Ed era importante farlo mantenendo viva l’attenzione per due ore. Ma lo facciamo senza trucchi, senza usare le musiche, senza steadycam. È un film molto denso dove le immagini e anche i suoni si stratificano per arrivare a descrivere cosa si prova a stare per la strada.

Time Out of Mind
è anche un film piccolo, a basso budget. Le piace esplorare questa dimensione produttiva?
Credo che questo sia il futuro dei film seri in generale. Le sceneggiature migliori sono quelle di film indipendenti, tra 5 e 11 mln di dollari di budget. Ci sono stati dei cambiamenti radicali negli ultimi dieci o quindici anni in America. Prima questi film venivano fatti dai grandi studios, oggi siccome nessuno ci guadagna, devono essere prodotti al di fuori del sistema. Perché Hollywood è interessata solo ai generi, commedia sentimentale o thriller, ma non al cinema drammatico. 

Cristiana Paternò
19 Ottobre 2014

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