Eleonora Danco: comizio d’amore e di morte

Abbiamo intervistato la teatrante e performer in concorso a Torino 32 con N-Capace, opera prima apprezzatissima e ancora in cerca di distribuzione


TORINO – Siamo destinati a diventare come i nostri genitori? È questa, delle tante domande, quasi tutte scomode o imbarazzanti, poste da Eleonora Danco nel suo N-Capace, opera prima apprezzatissima in concorso a Torino 32, quella che resta nella memoria e continua a risuonare nello spettatore. Elaborazione del lutto per la morte della madre, inchiesta sui desideri e la sessualità degli adolescenti contemporanei, che un po’ ricorda il pasoliniano Comizi d’amore, gesto dadaista d’ascendenza teatrale, omaggio al surrealismo e a De Chirico, il film della teatrante, artista e performer, costato appena 250mila euro, ha colpito per la sua originalità e l’autoironia a volte crudele. L’autrice mette in scena se stessa nel ruolo di Anima in pena, una donna che si porta dietro un letto con tanto di lenzuola per le strade di Terracina, la città della costa laziale dove è cresciuta, oppure che a colpi di piccone cerca di distruggere qualche bruttura architettonica a Roma come il nuovo mercato del Testaccio. Con incalzanti interviste a giovani e anziani che parlano di amore e morte, con un duello verbale con suo padre che da vedovo vive insieme alla badante Cristina (che si lancia in uno strepitoso numero di ballo vestita da astronauta), con l’attesa perenne del permesso materno per fare il bagno in mare o i fantasmi dei licantropi che abitavano un tempo sulla costa, con la musica elettronica di Markus Acher, N-Capace è un piccolo gioiello ancora in cerca di una distribuzione.  

Suo padre è protagonista di molte scene toccanti e divertenti, in un continuo gioco di dinieghi. Lei riesce a forzarlo a parlare quasi contro la sua volontà. Ora ha visto il film e cosa ne pensa?

L’ha visto in dvd, gliel’ho portato a Terracina. All’inizio gli è piaciuto, poi il giorno dopo ci ha ripensato: “Mi hai fatto dire cose che non volevo dire!”.  

Com’è nato questo progetto così inaspettato nel panorama del cinema italiano contemporaneo?

Dalla morte di mia madre, dieci anni fa, ho iniziato a filmare mio padre e la sua badante. Volevo capire come si potevano adattare a vivere insieme due persone che non si conoscevano. All’inizio imponevo delle performance, li facevo arrampicare sui muri, poi ho cominciato anche a intervistarli.  

E gli adolescenti di Terracina e di Tor Bella Monaca? E gli anziani che parlano della loro prima volta o di Dio?

Io sono una miracolata perché sono uscita indenne dall’adolescenza. Così ho cercato di partire da un trauma e farlo diventare una potenzialità per me come per gli altri. Nei miei seminari prendo la vita delle persone e la faccio diventare un testo, lavoro sull’intimo, fino ad arrivare a Shakespeare. Giovani e vecchi, in particolare, sono fuori dalla vita produttiva, o perché non ci sono ancora entrati o perché ne sono usciti.  

Sarà stato difficile trovare una produzione.

Ho bussato a molte porte, in Cecilia Valmarana di Rai Cinema ho trovato una persona che ha creduto completamente nel progetto. Poi è arrivato Angelo Barbagallo che mi ha lasciato totale libertà.  

La sua esperienza come attrice, autrice e regista di teatro è stata fondamentale. Come pure il territorio di Terracina e del Circeo, luoghi abitati da presenze mitologiche.

Il teatro mi è servito molto. Le spiagge e le campagne del Basso Lazio sono state una tela da riempire o da svuotare. Nell’infanzia e nell’adolescenza ho abitato lì, sentivo il mare dalla finestra della mia camera. Il mio lavoro fisico viene da questa possibilità di vivere a contatto con la natura, in libertà.  

E la pittura?

De Chirico mi ha ispirato tantissimo. Questo film può sembrare spontaneo ma non lo è. Buñuel, che ho iniziato a vedere a 25, mi ha insegnato il surrealismo, il modo dissacrante di mettersi in gioco.  

Considera quest’opera una forma di elaborazione del lutto?

Con mia madre avevo un rapporto conflittuale, ma la morte non ti fa separare da nessuno, bisogna accettare i propri demoni. I temi che indago – morte, famiglia, sesso, scuola – sono temi che riguardano tutti e che restano nelle varie età. L’essere umano è pieno di tutto e bisogna far uscire questo tutto.  

Ha incontrato difficoltà a far parlare le persone?

È stato più difficile con le ragazze, anche per le ansie e le paranoie dei genitori. Le anziane avevano meno remore. I maschi anche. Alle due generazioni mi sono approcciata nello stesso modo. Bisognava essere un po’ diabolici per strappare qualcosa, ma strappavo anche a me stessa delle confessioni.  

Qualcuno l’ha paragonata a Nanni Moretti.

Ho lavorato con Nanni Moretti ne La stanza del figlio. Non so che affinità ci possa essere tra noi, forse quel modo diretto di relazionarsi agli altri che lui aveva nei suoi primi film. Lo stimo moltissimo. Ha una coerenza che non diventa mai una palla al piede.

24 Novembre 2014

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