WALTER FASANO


“I miei film somigliano tutti all’intervallo o alle prove tecniche di trasmissione passati attraverso un filtro nostalgico e allucinato”. Definizione quasi scientifica per il lavoro, sempre molto astratto, di Walter Fasano. Questo trentatreenne pugliese, laureato al Dams e diplomato al CSC, ha sempre coltivato, accanto al “mestiere” di montatore – con Asia e Dario Argento, Luca Guadagnino, Marco Ponti – la passione di videomaker ultra-indipendente ed estremo. Ora un suo lavoro, Appunti per un film americano è alla Mostra di Pesaro.

Come è nato il film?
Ogni lavoro che realizzo come autore nasce dal semplice desiderio di filmare: osservare e registrare attraverso la messa a fuoco dell’obiettivo; uno strano modo di entrare nelle cose tramite un mezzo che sembrerebbe aumentare il distacco. In fase di ripresa (due o tre mesi) comincio già a montare i materiali che raccolgo, sovrapponendo in maniera casuale luoghi tempi e azioni. Quando la raccolta di materiali è finita passo al montaggio vero e proprio, un processo saltuario abbastanza lungo (alcuni mesi, un anno) in cui riesco a capire cosa veramente mi interessa mettere insieme. Film Americano, di cui gli “Appunti” che presento a Pesaro sono una prima fase di studio sui materiali, è nato durante un soggiorno di due mesi a Los Angeles, nell’estate del 2000, dove mi ero recato per il montaggio di un piccolo film di alcuni amici dell’USC.

Pensi di farne un lungometraggio?
Avendo parecchie ore di materiale interessante vorrei riuscire a costruire qualcosa che superi in durata i miei lavori precedenti (che non andavano mai oltre i venti minuti). Non è un traguardo particolarmente facile, trattandosi di un progetto non narrativo basato essenzialmente sulla costruzione di rapporti emotivi fra immagini musica e suoni: almeno senza rischiare di annoiare. Un lungometraggio di finzione non è una cosa che al momento mi interessa, né credo di esserne capace.

Che idea avevi dell’America e come si è modificata attraverso la tua esperienza?
Il cartaio Non saprei. L’immagine più vicina che mi viene in mente, almeno per la California, è quella del gelato Sundae del McDonald’s. Tanto buono mentre lo mangi, un po’ indigesto dopo. Mi è sembrato essenzialmente un luogo di grandi solitudini. Lavorarci per il cinema è bello ma un po’ alienante. In questo momento l’America mi fa paura. Ho come la sensazione che il vero discrimine fra i due millenni non sia stato l’ingresso nel 2000 ma l’11.9.2001; ho l’illusione emotiva che i miei materiali dell’estate del 2000 mantengano una specie di stato virginale precedente ad un passaggio storico di tragica ed enorme portata.

Qual è l’osmosi tra il tuo lavoro di regista e quello di montatore?
E’ molto utile, e un po’ schizofrenico, trovarsi da entrambe le parti. Come montatore credo che il fatto di realizzare miei progetti mi permetta di riuscire meglio a comprendere i numerosi problemi e delicati stati d’animo che attraversa il regista nella fase del montaggio. Come autore ogni film che monto è un’occasione per apprendere qualcosa sui film e sul cinema, nonché sulla durezza ed il rigore che un regista deve cercare di mantenere nei confronti del proprio lavoro.

Puoi raccontarci qualcosa del nuovo film di Dario Argento a cui stai lavorando?
Lavorare con Dario Argento è il coronamento di un sogno: essendo poi cresciuto intriso della visione dei suoi film mi sento come a casa. Il montaggio del Cartaio è estremamente impegnativo e gratificante. Avevo lavorato con sua figlia Asia, nel 1999 avevamo realizzato un video musicale per i Royalize, un’altra ottima esperienza.

I tuoi video sono rigorosamente senza dialoghi. Qual è il ruolo della musica?
Assolutamente centrale: il suono è fatto di parole, rumori della realtà e musica. Collaboro con amorevole prossimità poetica con una musicista ginevrina di nome Nathalie Tanner che sa cogliere nelle sue composizioni il punto esatto di contatto fra musica ed immagini con insostituibile puntualità.

Cristiana Paternò
24 Giugno 2003

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