Nanni Moretti: “Margherita o dell’inadeguatezza alla morte”

Intervista al cineasta che il 16 aprile porta in sala il suo 12° film, Mia madre, in cui una regista in crisi si confronta con la malattia della madre. Un'elaborazione del lutto molto personale


“Rompi almeno qualche schema”, dice il fratello Giovanni a Margherita, la regista che in Mia madre è chiaramente l’alter ego di Nanni Moretti. E ne rompe di certo qualcuno la dodicesima opera del regista romano. A partire dalla scelta di una protagonista femminile a cui affidare le nevrosi e le insicurezze dell’ex Michele Apicella. Una figura abbozzata nella regista de Il caimano che qui si prende la scena. Film doppio eppure semplice come bere un bicchier d’acqua, film ironico eppure straziante, film autobiografico ma molto scritto: elaborato con le scrittrici Gaia Manzini e Chiara Valerio nella prima idea e poi portato a compimento con i fedelissimi Valia Santella e Francesco Piccolo. Elaborazione del lutto e riflessione sul cinema (il suo) con tutti i tic morettiani ma anche una rinnovata umanità. Con le cose – e le persone – chiamate con il loro nome.
Margherita Buy è Margherita. Sta girando un film sociale, realista, su una fabbrica occupata dagli operai dopo che un imprenditore squalo arrivato dall’America ha deciso di licenziarne due terzi. L’attore protagonista del film nel film, interpretato da John Turturro, è pieno di sé, infantile, incapace di ricordare le battute, fissato con quella volta che lo chiamò Stanley Kubrick (ma non è mai successo). Margherita intanto è travolta dal suo privato: si sta separando dal compagno, sua figlia adolescente (la tredicenne Beatrice Mancini) non studia. E soprattutto sua madre, un’insegnante di latino molto amata dai suoi ex allievi, è in ospedale per un grave problema polmonare, accudita da suo fratello Giovanni (Nanni Moretti), un ingegnere che per curarla lascia il lavoro. Margherita invece, che tutti accusano di non essere mai veramente presente, si barcamena tra il set e la clinica e si sente sempre più smarrita. Confonde sogni, realtà e fantasie. Un po’ come accadeva al regista di Sogni d’oro, mentre la mamma (l’attrice teatrale Giulia Lazzarini) peggiora sempre più e la vediamo camminare fuori dall’ospedale, come il papa inadeguato Michel Piccoli passeggiava in incognito per via della Conciliazione. Margherita e Giovanni affrontano, ciascuno a suo modo, quel processo doloroso e non razionalizzabile del distacco da un genitore. Un distacco che deve toccare a tutti – è nella natura delle cose – eppure che è tanto duro accettare.

Mia madre, prodotto da Moretti con Domenico Procacci e Rai Cinema, sarà in sala da giovedì 16 aprile in 400 copie. E proprio giovedì il Festival di Cannes annuncerà il suo programma. Nanni potrebbe andare fuori concorso? “Da Cannes accetto tutto”, dice con inedita tranquillità.

Moretti, quanto c’è di autobiografico in questo film così personale?
Non so dirlo. Penso alla frase che dice l’attore interpretato da John Turturro sul set: “Voglio andare via di qui, voglio tornare nella realtà”. Mi faceva piacere che lo spettatore non capisse subito se stava vedendo qualcosa di reale o un sogno, un’immaginazione, un ricordo. Tutto in Margherita convive. Il suo non essere presente, il suo senso di inadeguatezza, le preoccupazioni per la figlia, i problemi di lavoro, i ricordi, i sogni, i pensieri.

Vediamo i libri di latino inscatolati, gli scaffali della libreria vuoti, e la lunga fila di spettatori fuori dal Capranichetta, storica sala di Piazza Montecitorio oggi chiusa. Tutto sembra alludere a un mondo della cultura che non esiste più o che sta scomparendo.
Il Capranichetta era il cinema delle grandi teniture e questa cosa non sta scomparendo. Il cinema Intrastevere programma il documentario di Wenders su Sebastiao Salgado da sei mesi. Quindi non sarei così pessimista. Quanto al latino fa parte del nucleo del film, è qualcosa che rimane negli ex alluni che vengono a trovare la professoressa.

Margherita chiede continuamente agli attori di mettersi accanto al personaggio, brechtianamente. È una presa in giro del drammaturgo tedesco?

Se prendo in giro qualcuno è me stesso. Non ce l’ho certo con Brecht. È molto più faticoso accanirsi contro se stessi. È una cosa che dico spesso agli attori: stai accanto al tuo personaggio. È un concetto che avevo ben presente fin dall’inizio e cercavo di comunicarlo agli attori. Penso che un attore non debba essere a una sola dimensione. Quando Margherita si arrabbia in lei c’è anche del dolore, c’è anche sempre qualcos’altro. E quando si infuria sul “camera car” e dice “il regista è uno stronzo a cui permettete tutto” stiamo parlando di qualcosa che conosco bene.

Insieme a La stanza del figlio e accanto a Caos calmo, di cui lei era solo interprete, questo film prosegue la sua riflessione sul tema del lutto.
A 20 anni non mi sarebbe venuto in mente di parlarne ma col tempo si pensa di più alla morte. La stanza del figlio poi esprimeva delle paure, dei fantasmi, questo nasce da un’esperienza vissuta. Non riesco a mettere insieme questi tre film.

I suoi genitori l’hanno sostenuta nel suo percorso cinematografico?

Col cinema mia madre e mio padre non c’entravano nulla. Ma quando a 19 anni, dopo aver finito le scuole, ho deciso di provare a fare il regista, mi hanno sostenuto con discrezione e con affetto. E non è poco.

La madre del film ha tanti tratti in comune con Agata Apicella, la sua mamma mancata nel 2010. Considera questa opera anche un omaggio a lei?
Mi imbarazza parlare della mia madre vera, ma c’erano generazioni e generazioni di ex alunni che continuavano a frequentarla e a parlare con lei un po’ di tutto, questa cosa mi si è rivelata dopo la sua morte e si vede anche nel film. La morte della madre è un passaggio importante della vita, a me è successo durante il montaggio di Habemus Papam. Volevo raccontarlo senza sadismo nei confronti dello spettatore.

È stato emotivamente difficile?

Penso che quando si fa un film, si fa un film e basta. Anche se il tema è molto forte. Penso che il tema che stai trattando non ti investa con la sua forza. Ma forse non sono d’accordo con me stesso, forse non è così.

Perché la regista Margherita gira un film sociale, sulla perdita del lavoro e l’occupazione di una fabbrica, un film così poco morettiano?
Volevo che ci fosse uno stacco tra la vita privata di Margherita, che è sempre da un’altra parte, sul lavoro pensa alla mamma, quando sta in ospedale dalla mamma pensa alla figlia… Mi piaceva che stesse girando, per contrasto, un film solido, strutturato. È vero che il film nel film è un altro tipo di film rispetto a quelli che io faccio.

Da qualche film a questa parte ha lasciato il centro della scena ad altri, Silvio Orlando, Michel Piccoli… Ma è la prima volta che il protagonista è una donna.

Fin da quando ho cominciato a scrivere il soggetto, volevo una donna come protagonista. Non mi ha mai sfiorato l’idea di essere io al centro del film. Ma Margherita è il mio alter ego. Mi faceva piacere dare delle caratteristiche maschili a un personaggio femminile. In particolare mi appartiene questo senso di inadeguatezza. Il senso del disagio è qualcosa che conosco molto bene. Pensavo che con il tempo mi venisse il pelo sullo stomaco, come si usa dire con una brutta espressione, invece succede un po’ il contrario. Più il tempo passa e più il disagio cresce e questo non è riposante. Non ho acquisito freddezza e quindi sicurezza, faccio sempre gli stessi sogni. Prima del primo giorno di riprese, ho i dubbi, le angosce, i ripensamenti di 30/40 anni fa.

Considera Mia madre un punto d’arrivo?

Il punto d’arrivo è la semplicità con cui sono raccontate certe cose. Attraverso un processo di regia, di scrittura, di interpretazione si arriva alla semplicità che non è mai la partenza, perché non vuol dire banalità. Anni fa mi divertivo a portarmi dietro delle costanti del mio personaggio, a costruirlo film dopo film. La scuola, i pranzi in famiglia, lo sport… Ora non ho più questa fissazione.

Pensa di aver rotto qualche schema?
Sono gli altri che possono dirlo, non io. Ma forse sì. 

Cristiana Paternò
13 Aprile 2015

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