Marco Tullio Giordana: “Lea Garofalo, il coraggio di opporsi”

Il Roma Fiction Fest apre con un film per la tv – Lea, diretto da Marco Tullio Giordana - una storia di 'ndrangheta, con protagonista Vanessa Scalera


Da italiano è difficile non conoscere il nome di Lea Garofalo, uccisa per mano del marito, ‘ndranghetista calabrese, bruciata, sbriciolata in una colata d’asfalto, a Milano nel 2009. La figlia Denise – erede morale, oltre che di sangue, di Lea – con la sua testimonianza contribuì alle cinque condanne, di cui quattro ergastoli. Fondamentale fu all’apporto dell’associazione Libera di Don Ciotti. Ecco gli elementi della storia di una madre, nata e cresciuta nel cuore crotonese di Petilia Policastro, che con coraggio non comune si mise dichiaratamente in contrasto con la ‘ndrangheta, che le aveva già ucciso un genitore, poi il fratello per il disonore che lei stessa aveva provocato nel lasciare il padre di sua figlia, a seguito di arresto per spaccio. Lo stivale italiano come le cappelle di una via crucis, in otto tappe, da Petilia a Milano, passando per Bergamo, Fabriano, Minervino Murge, Campobasso, Bari, Torino, per finire, anzi “essere finita”, nel capoluogo lombardo, per un sottile piano diabolico, studiato dal padre della figlia, che lei ha sempre portato con sé, cresciuta nella sincerità degli eventi, strappata di volta in volta – dai cinque anni all’adolescenza – a luoghi, scuole, compagni, per seguire quel sistema di protezione, poi negatole perché troppo poco “succose” per permettere di incastrare, secondo le forze dell’ordine, chi a loro interessava, che poi guarda caso ha ridotto Lea ad una manciata di ossa confusa nel catrame di una strada milanese.

Lea Garofalo vive in Vanessa Scalera in questo racconto per il piccolo schermo, in un’interpretazione sincera, terrena, dolcemente coraggiosa, duramente materna: l’attrice dona al personaggio una femminilità combattiva, uno spirito sofferente ma vincente, convincendo per la naturalezza con cui interpreta, talento da riconoscere anche a Linda Caridi, Denise nel racconto, che subito eredita lo spirito materno, prima nell’essere una giudiziosa bambina e piccola donna e poi, nemmeno maggiorenne, non mancando di coraggio nel decidere di testimoniare al processo che condanna il padre, Carlo Cosso, alla fine pena mai. La mano di Giordana è riconoscibile nella sensibilità del racconto di impronta sociale, seppur non passi inosservata una certa tendenza a smussare gli angoli della vicenda, come spesso capita anche alle storie più dure che vengono raccontate per lo schermo televisivo, come se questo imponesse un filtro edulcorante rispetto a quello che ci si può permettere di raccontare, con più crudezza, il cinema: ma il film non è dolce, non tralascia nemmeno qualche inquadratura sanguinosa.  

Marco Tullio Giordana, perché ha raccontato la storia di Lea Garofalo?

Perché non è la storia di una vittima, ma di qualcuno che trova in sé la forza di reagire, di combattere: la storia di un caduto, di chi ha il coraggio di opporsi, di essere testimone in prima persona e di non accettare la realtà come predeterminata. Fa parte di quel tipo di figure che mi sono sempre piaciute, quelli non remissivi, ribelli. Don Ciotti mi ha raccontato che Lea Garofalo fece vedere I cento passi a Denise, la cosa mi ha colpito molto, forse è stato anche questo uno dei motivi che mi ha spinto a fare il film.

Libera di Don Ciotti è stata parte fondamentale nella vita di Lea e Denise, ma anche un’importante collaborazione per il film…

Libera è un’associazione grandiosa, senza scopi di lucro, che da oltre 25 anni si sta spendendo nel Paese per combattere le varie mafie e senza Libera e le persone che vi militano non avrei potuto raccontare niente.  

Pensando proprio a Peppino Impastato de I cento passi, anche Lea Garofalo dimostra che, seppur drammaticamente, si può emergere da certe prigioni sociali…

Si può uscirne a testa alta, si può combattere, certo si rischia la vendetta, perché sono figure contagiose che devono essere punite. Come con Peppino Impastato ho riportato all’evidenza una certa storia, per farla conoscere alle generazioni più recenti, perché ne potessero trarre lezione, non ascoltandole dagli adulti, spero anche con Lea succeda la stessa cosa.  

Ma servono effettivamente da esempio?

Il loro esempio fa scuola: non ne godono loro, ne gode chi rimane, ma sono persone che ci indicano una strada.  

Chi è stata Lea Garofalo come donna?

Credo che sia stata una persona di cattivo esempio – lo dico con ironia – per le donne della ‘ndrangheta: per quest’ultima il distacco di Lea è stato un grosso colpo, più di un arresto.  

Perché sceglie spesso storie come questa?

Assecondo un po’ la mia natura, non lo faccio con un intento particolare. Sono interessato alle storie piccole che, all’interno della Storia più grande, hanno un valore straordinario.   

Siamo abituati a vedere i suoi film al cinema, qui racconta per la tv, com’è questo mezzo?

È un mezzo straordinario, quello che viene visto in televisione ha grande capacità di persuasione, è il più potente mezzo di comunicazione, e secondo me una storia così dev’essere conosciuta da tutti, dovrebbe far parte del nostro patrimonio scolastico ed educativo.    

Nicole Bianchi
12 Novembre 2015

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