Adriano Valerio: benvenuti in Romania

I 30enni Ivo e Clara sono i migranti all'incontrario di Banat, opera prima in concorso al Bif&st e dal 7 aprile in sala. Nel cast Edoardo Gabbriellini, Elena Radonicich e Piera Degli Esposti


BARI. In un‘epoca di grandi movimenti di migranti verso l’Italia, i 30enni Ivo e Clara vanno controcorrente lasciando la loro città, Bari, e cercando la fortuna e un’occasione di vita all’Est, in Romania. Loro sono i protagonisti di Banat, esordio alla regia di Adriano Valerio, che dopo essere stato alla Settimana della Critica a Venezia 72 è ora in concorso al Bif&st (sezione ItaliaFilmFest/opere prime e seconde) e dal 7 aprile verrà distribuito da Movimento Film in collaborazione con Rete degli spettatori, preceduto dall’anteprima streaming il 6 aprile alle ore 21 su MyMoviesLive.
Ivo (Edoardo Gabbriellini) e Clara (Elena Radonicich) non fanno parte della generazione Erasmus, a spingerli all’estero è la difficoltà di trovare un lavoro stabile in Italia. Ivo è un agronomo disoccupato che trova un’opportunità a 1500 chilometri di distanza. Clara, uscita da una difficile storia d’amore, perde il lavoro in un cantiere navale e decide di raggiungere Ivo.
Si ritroveranno su una fredda spiaggia deserta del Mar Nero o in un pometo spoglio a cercare un po’ di riscatto professionale e di felicità sentimentale. Ma facendo i conti con quel distacco dalle proprie radici che porta allo spaesamento. Ivo e Clara sanno che il loro viaggio è in parte folle, ma sono anche convinti che forse questa è la scelta giusta per costruire un futuro diverso, lasciandosi alle spalle tutto quello che li imprigionava.
Il film, con interpreti anche Piera Degli Esposti e Stefano Velniciuc, è prodotto Movimento Film con Rai Cinema.

Adriano Valerio, come nasce il film?
Lo spunto me l’ha dato un amico imprenditore che per un breve periodo della sua vita aveva deciso di realizzare un affare di mele in Romania, dopo la caduta del regime comunista. La storia mi affascinò, del resto in tutti i miei corti troviamo lo spaesamento di un personaggio buttato in un luogo che non conosce e di cui vediamo la reazione.

Chi sono Ivo e Clara?

Due personaggi coraggiosi. Un uomo di 40 anni suonati che mette tutta la sua vita su una vecchia macchina e attraversa i Balcani andando incontro all’ignoto, l’esatto contrario dei cosiddetti bamboccioni. E una donna incinta che decide di seguire quest’uomo che conosce appena. Da una parte si mette in evidenza una disperazione non gridata perché se il personaggio accetta l’opportunità di fare l’agronomo sta in Romania, domandiamoci come stava in Italia.

E’ corretto definire il suo film una commedia?
Non amo le etichette, ritengo buffi termini come dramedy. Trovo naturale che si raccontino anche cose gravi con senso dello humour, anche se la storia che narro non è così drammatica. Purtroppo il mercato impone di incasellare un film in un genere.

Nelle note di regia lei cita la lezione di alcuni registi nord europei.
Aki Kaurismäki, nel quale convive una dimensione poetica legata allo straniamento e una dimensione drammatica. Penso anche a Dagur Kari o a Roy Andersson e al suo Songs from the Second Floor, con protagonista un uomo che cerca di fare un business con i crocefissi nell’anno del Giubileo, e il film finisce con lui che getta i crocefissi. Non faccio film come questi, ma sono la conferma che commedia e dramma possono, anzi devono convivere.

Come spesso accade per un’opera prima, il film ha avuto una lunga gestazione.
Abbiamo fatto i primi sopralluoghi a Banat cinque anni fa rispetto a quando abbiamo cominciato a girare nell’aprile 2015. Nel frattempo è cambiata la Romania, è cambiata la situazione politica, e soprattutto sono cambiato io. C’è stata una riscrittura della sceneggiatura, ma fin dalla prima stesura c’era il respiro di questi luoghi e paesaggi che ho visto in Romania.

A volte il film evidenzia uno sguardo documentaristico.

Anche se abbiamo girato in 5 settimane e in 5 nazioni diverse, non abbiamo rinunciato all’idea di tenere la porta aperta e di guardarci attorno. Uno dei rari momenti in cui siamo riusciti a respirare è quello dei volti straordinari dei contadini, delle comparse messe a disposizione, che abbiamo integrato più di quanto previsto in sceneggiatura.

Gli interpreti recitano per sottrazione, è un’impressione corretta?
Nel cinema che mi affascina spesso c’è questo lavoro, anche se si acquisisce con la maturità artistica  e non so se ci sono riuscito appieno in questa opera prima che veicola tante mie idee. Ho il terrore della retorica, perciò sia nella scrittura che nella recitazione e nel montaggio c’è sempre questo togliere, togliere, togliere.

Non crede di aver dato al film forse un titolo difficile?
Mi piace la parola ‘banat’ è cangiante: in romeno indica una precisa regione geografica, in ungherese significa donne e in arabo dolore. Avrei titolato il mio esordio La giusta distanza, se non ci fosse già un film con questo titolo. Per i protagonisti infatti qual è la giusta distanza dal luogo in cui sono nati o tra di loro? Sul piano delle riprese l’idea era di lavorare molto vicino ai loro corpi, ma anche di isolarli nei paesaggi. L’obiettivo è quello di raccontare questo senso di spaesamento, di freddo, alternandolo a momenti di intensità amorosa.

Perché un’icona anni ’70 come Rosanna Fratello?
E’ una mia fascinazione, ho frequentato molto a Milano una discoteca che si chiamava Plastic dove per un’ora si ascoltavano Nada, Loretta Goggi, Rosanna Fratello e anche quando ero in Francia imponevo ai miei amici stranieri questa musica. C’è un elemento di ironia nel ritrovarsi in questo posto sperduto ad ascoltare qualcosa di profondamente italiano, anni ’70, e che rende del tutto straniante la situazione.

Bari 2016

Bari 2016

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