Anastopoulos & Del Degan: “Tragicommedia a Trieste”

Abbiamo intervistato i due registi, autori di L'ultima spiaggia, film ambientato in uno stabilimento balneare di Trieste che ha al suo interno un muro che separa uomini e donne


“Tre anni fa ho sentito la voglia di realizzare un documentario a Trieste, nella città in cui vivo. Ero rimasto colpito dalla spiaggia “Pedocin”; che la mia compagna frequentava con nostro figlio, come tutte le mamme triestine. Un luogo bizzarro, abitato da un’umanità particolare, che si prestava a essere raccontato attraverso il cinema. Anche Davide Del Degan aveva in mente un’idea simile e allora l’abbiamo realizzata insieme”. Il regista Thanos Anastopoulos parla così de L’ultima spiaggia in programma al Festival di Cannes nelle Proiezioni speciali, una co-produzione Mansarda Production (Italia), Fantasia Ltd (Grecia), Arizona Productions (Francia) in collaborazione con Rai Cinema e con il supporto di Friuli Venezia Giulia Film Commission, Fondo Audiovisivo FVG, Greek Film Centre, Centre National du Cinéma et de l’image animée – Aide à la coproduction d’oeuvres cinématographiques franco-grecques.

Sull’onda del successo che ormai da qualche anno investe il cinema “Made in Fvg” in ambito internazionale (Fasulo, Comodin, Bianchini, Oleotto, Zoratti, Gergolet), i registi sono due triestini, uno di nascita, l’altro “per amore”. Anastopoulos, al quarto lungometraggio dopo aver partecipato con i suoi precedenti film (Atlas – All the Weight of the World, Correction e The Daughter) ai festival di Rotterdam, Berlino e Toronto, è nato ad Atene ma vive da diversi anni nel capoluogo giuliano. Del Degan, che esordisce nel “lungo” dopo aver realizzato diversi cortometraggi (A corto d’amore, Interno 9, Il prigioniero, Favola zingara e Habibi), è natio del luogo.
L’appartenenza a questa città di mare, al confine con la Slovenia e un tempo porto commerciale dell’Impero austro-ungarico, è tutt’altro che secondaria. Perché L’ultima spiaggia, definito dagli autori “una tragicommedia sulla natura umana”, è interamente ambientato dentro a uno stabilimento balneare cittadino (La Lanterna, ma tutti a Trieste lo chiamano “Pedocin”) la cui caratteristica principale è quella di mantenere al suo interno un muro che separa i settori destinati rispettivamente agli uomini e alle donne.
Un muro che nessuno ha il minimo interesse ad abbattere. E non, come si potrebbe pensare, per un atteggiamento “bigotto”, ma anzi, molto laicamente, per potersi sentire più liberi. Qui, 365 giorni all’anno, perché lo stabilimento non chiude mai, si incontra la quintessenza della triestinità popolare.

Cosa vi ha colpito di questo stabilimento balneare?
T.A. In qualche modo mi ha ricordato la mia infanzia. Mio padre aveva l’abitudine di andare a nuotare anche d’inverno con altre persone. Non c’erano muri, ma quest’idea di un gruppo che si trova in spiaggia, che sia estate o inverno, mi faceva sentire “a casa”.
D.D.D. Io l’ho frequentato da bambino. Vivevo dall’interno questa strana realtà con il privilegio di poter passare da una parte all’altra dello stabilimento. Perché i bambini, fino a 12 anni, possono stare sia di qua che di là. Stavo un po’ con il nonno, poi, se era stanco o mi stufavo, facevo il giro e andavo dalla nonna. Raccontare questo strano luogo, un po’ sospeso nello spazio e nel tempo, è stato da sempre il mio sogno.

Avete trovato uno sguardo comune?
T.A. Ci siamo trovati nel desiderio di osservare l’umanità che frequenta questa spiaggia e per farlo ci siamo imposti delle regole: essere sempre in due, evitare le interviste, non provocare nulla. L’idea era di stare lì e aspettare che succedesse qualcosa.
D.D.D. Ci siamo trovati subito d’accordo sull’approccio e ci stimolava l’idea di avere due punti di vista simili, eppure diversi.

Che cosa rappresenta questa spiaggia divisa, anche metaforicamente?
T.A. Per me che vengo da fuori è comunque sorprendente. Capisco la tradizione austroungarica e tutto il resto, ma il fatto che il muro stia lì ancora oggi, a separare uomini e donne, mi fa pensare. All’idea di confine, di identità, alle discriminazioni, alle differenze tra i sessi. Quando abbiamo cominciato a girare avevo l’impressione che questo fosse l’ultimo muro in Europa, rimasto come un’espressione di folklore. Ma due anni dopo ci troviamo in una Europa che innalza di nuovo muri. E questa volontà di erigere barriere si percepisce anche nel film, dalle cose che dicono le persone che lo frequentano.
D.D.D. Per i triestini, il Pedocin, col suo muro, non è un luogo di divisione ma di libertà assoluta. E’ un posto in cui stare al riparo dai giudizi dell’altro sesso.

Chi sono i frequentatori della spiaggia?
D.D.D. E’ un incontro tra generazioni, culture ed estrazioni diverse. Proletariato, commesse in pausa pranzo e signore della Trieste “bene”. Operai, direttori di banca e persino il rabbino, perché questa è l’unica spiaggia kasher, dove è possibile spogliarsi senza essere visto dalle donne. Tutte persone, quindi, che non possono riconoscersi, ma che si identificano nel fatto di essere in quel luogo in costume da bagno, spogliati di tutto. Corpi nudi o semi nudi davanti al mare. Tutto qua. Le differenze si annullano.
T.A. Va detto che nel nostro film non ci sono due blocchi divisi, uomini e donne, ma tutta l’umanità che fa parte di quel microcosmo. Chi ci lavora, per esempio, perché questo è uno stabilimento comunale. Allora nello stesso momento in cui pensi di trovarti di fronte a persone libere e nude davanti al mare, ecco che subentra l’istituzione con le sue regole, chi apre e chi chiude, chi sistema le cose.

Come vi hanno accolto? Avete avvertito diffidenza?
T.A. Sono stati tutti molto generosi. La sfida, da subito, è stata far dimenticare la nostra presenza in modo che si comportassero tutti in modo spontaneo e c’è voluto del tempo. Solo le donne erano più diffidenti e allora ci siamo fatti aiutare dalla direttrice della fotografia di Davide, Debora Vrizzi. In certi casi la lasciavamo da sola, perché abbiamo notato che la nostra presenza cambiava le dinamiche del gruppo. Invece noi cercavamo verità.

Per quanto tempo avete girato?
T.A. 120 giornate nell’arco di tutto l’anno, in tutte le stagioni, perché gli “aficionados” frequentano lo stabilimento anche d’inverno.

Possiamo parlare di cinema del reale? O è più un documentario di osservazione?
T.A. Non saprei come definirlo, è qualcosa di più. Un documentario atipico, multinarrativo, con tanti “personaggi” e una storia, o più che altro una narrazione che ruota attorno a questa umanità e a questo spazio. Atemporale e quasi metafisico. Abitato anche da fantasmi.

Un film alla Gianfranco Rosi?
T.A. Non proprio. Eventualmente accostabile solo a Below Sea Level. In verità abbiamo pensato ad altri autori: Pietro Marcello de La bocca del lupo, nello sguardo su Genova e il porto, e ancor di più a Ulrich Seidl. C’è un po’ della crudeltà di Seidl (ride, ndr). Abbiamo osservato le persone davanti a noi con estremo rigore e con molto affetto senza mai provocare o simulare nulla. Tutto ciò che c’è nel film, c’è perché è accaduto veramente, spontaneamente.

Sembra anche un po’ pasoliniano….
T.A. Ah, certo, ci abbiamo pensato. Ecco, potremmo dire che questo film è uno strano mix tra Pasolini e Fellini. Perché la cosa che non avevo capito di Fellini, quando vedevo i suoi film in Grecia, da ragazzo, è che lui non era un regista grottesco e visionario, come pensavo. Appena ho messo piede in Italia ho compreso che in realtà Fellini era un documentarista (ride, ndr.). Questo naturalmente è ciò che abbiamo cercato di fare, adesso vedremo se ci siamo riusciti.

Che cosa vi lasciano questi 120 giorni al Pedocin?
T.A. Molti rapporti di amicizia e il senso del tempo che passa. Il ciclo della vita.
D.D.D. Per farlo capire dovremmo organizzare una proiezione di novanta ore. Ci sono più di cinque ore di materiale, di persone e di storie che abbiamo dovuto tagliare, ma che amiamo.

E che cosa avete imparato?
T.A. Che comandano le donne. Anche questa una cosa molto triestina, di eredità austro-ungarica. In vantaggio anche numericamente (su 4mila paganti gli uomini saranno circa 200) e in lotta per il dominio sul territorio. Si gioca sul controllo delle sedie e su alcune posizioni strategiche. Le sedie si legano con delle catene e ognuna possiede un lucchetto personale. D’estate, alle 6 del mattino, all’ingresso ci sono almeno 40 donne in fila per arrivare prime e prendere i posti “migliori”. C’è una gerarchia geografica che si misura in base a dove vuoi metterti per prendere il sole. Alcuni posti sono più importanti di altri e quindi particolarmente ambiti.

C’è l’Italia in questa “ultima spiaggia”?

T.A. Un’Italia atipica, in molti non si riconosceranno. Alcuni faticheranno persino a comprenderla. Essendo tutto parlato in dialetto triestino, il film sarà doppiato ovunque. Italia compresa.

Beatrice Fiorentino
15 Aprile 2016

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