Laura Samani: “Amo raccontare il corpo delle donne”

Tra i 18 concorrenti di Cinéfondation c'era anche una regista italiana, la ventisettenne Laura Samadi, allieva del CSC. Che sta già lavorando al suo primo lungometraggio


CANNES – Naomi Kawase con gli altri giurati (Marie-Josée Croze, Jean-Marie Larrieu, Radu Muntean e Santiago Loza) ha annunciato i premi della 19ma edizione di Cinéfondation, il concorso riservato ai saggi di diploma delle scuole di cinema. Il primo premio è andato ad Anna di Or Sinai (The Sam Spiegel Film & TV School, Israele), il secondo premio a In the Hills di Hamid Ahmadi (The London Film School, GB), il terzo premio ex aequo a A Nyalintàs Nesze di Nadja Andrasev  (Moholy-Nagy University of Art and Design, Ungheria) e La culpa, probablemente di Michael Labarca (Universidad de Los Andes, Venezuela). Tra i 18 concorrenti, selezionati tra 2.350 candidati, c’era anche una regista italiana, la ventisettenne Laura Samani, allieva del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il suo lavoro, La santa che dorme, prodotto da CSC Production, segna la quinta volta per uno short film della Scuola in concorso a Cinéfondation, dopo Il naturalista nel 2009, L’estate che non viene nel 2011, Terra nel 2012 e Lievito madre nel 2014, vincitore del terzo premio. Il corto racconta un profondo legame tra due amiche dodicenni: Giacomina e Silene. La prima è stata scelta come custode della statua di Santa Achillea per la processione del paese, l’altra, turbata da questa circostanza ma anche in un momento particolare della vita di una bambina, viene trovata in uno stato di morte apparente: il paese grida al miracolo e decide di portarla in processione al posto della statua della santa. Girato nelle Valli del Natisone, in provincia di Udine, il film è parlato nel dialetto di quelle zone, un dialetto di matrice slovena.

Laura, come mai questa scelta di linguaggio?
Io sono di Trieste e dopo tre anni passati a Roma, dove ho studiato e realizzato i miei primi cortometraggi, il mio più grande desiderio era tornare nelle mie zone. Il dialetto di quelle valli si è conservato intatto e ho cercato persone che lo parlassero in casa. Non è stato semplice creare un rapporto di fiducia con una comunità piuttosto chiusa, c’è voluto del tempo per avere una sorta di patto di rispetto reciproco.

Come ha scelto le due ragazzine protagoniste?
Non è stato semplice trovare Sara Sclausero e Denise Vallar. In particolare Denise, che è Giacomina, non voleva neppure fare il provino. L’avevo incontrata a una scuola di musica, ma mi sfuggiva con un atteggiamento tipico dell’adolescenza.

Il film ha un andamento molto misterioso.
Io sono un mistero persino per me stessa, figuriamoci per gli altri. Ma c’è anche il mistero della fede, come dicono i cattolici. La santa che dorme è un progetto a togliere. Ad esempio non vediamo il ritrovamento di Silene, arriviamo che i compaesani hanno già deciso che c’è stato un miracolo.

Perché ha scelto questa particolare età?
A 12 anni sei grande ma non fai parte del mondo adulto, non ti spiegano le cose ma già le sai. Partecipi ai discorsi ma non vieni mai interpellato. Ho avuto un’adolescenza ‘sgraziata’, non ero né carne né pesce, credo come molti, sempre a disagio. Ho attinto anche a queste emozioni.

Questa è una storia di crescita.
Sì, di crescita personale ma anche fisica. Il corpo si allunga, vengono i peli sotto le ascelle, spunta il seno, arrivano le prime mestruazioni. Sto leggendo Elena Ferrante e devo dire che è la scrittrice giusta in questo momento. Mi interessa molto il rapporto tra amiche donne, la rivalità e la complicità: la tua migliore amica è la tua anima gemella ma anche la tua nemica, forse perché la vuoi inglobare dentro di te. Mi sono molto confrontata con Elisa Dondi, autrice della sceneggiatura insieme a Marco Borromei, sull’esperienza del menarca. 

La processione è una tradizione vera?
No, l’abbiamo inventata. Ma quelle zone hanno una forte tradizione religiosa. Ad esempio in primavera vanno a benedire i campi uno per uno altrimenti credono che non ci sarà un raccolto. C’è una religiosità quasi sciamanica.

Come è andata la produzione del corto, a cui hanno lavorato i diplomandi del Csc dei vari reparti?
La base viene da Csc Production, poi abbiamo cercato aiuto col crowdfunding, la Film Commission Friuli Venezia Giulia ci ha dato una mano per la ricerca location. Avevano già finanziato il film di diploma di Matteo Oleotto ed erano ben disposti.

Debutterà presto nel lungometraggio?
Sto lavorando con gli stessi sceneggiatori de La santa che dorme e continuo lo studio del corpo femminile e delle sue trasformazioni in un ambiente cattolico. Siamo nel 1901 in Carnia, al confine con l’Austria, e la storia è una storia di una gravidanza. Stiamo cercando anche coproduttori in Slovenia, Croazia e Austria. Gireremo con attori non professionisti e in dialetto carnico.

Amelio era il suo supervisore di regia. Quali sono i suoi modelli?
Ci ha seguito per il diploma, è stato lui a pensare il titolo, tra l’altro. Mi ha detto che il mio film è molto poco italiano e non so se sia un complimento. Ammiro Naomi Kawase, la presidente della giuria, che qui ci ha parlato della sua idea di cinema. Condivido la sensibilità con vari autori per ragioni oscure: Andrea Arnold, con il suo cinema da pugni in tasca, Michael Haneke, David Lynch, Larrain. E tra gli italiani vorrei citare Alice Rohrwacher a cui mi sento molto vicina. 

Cristiana Paternò
20 Maggio 2016

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