Asghar Farhadi, radiografia di una vendetta

Il cineasta iraniano è tornato a girare a Teheran, dopo la parentesi europea. E con The Salesman firma un'opera di grande spessore sull'Iran contemporaneo


CANNES – Un vecchio palazzo che rischia di crollare a causa delle ruspe di un cantiere. Una giovane coppia – Emad è un insegnante di letteratura, Rana un’attrice dilettante e insieme al marito sta recitando in Morte di un commesso viaggiatore – costretta a trasferirsi in fretta in una appartamento messo a disposizione da un amico. Senza sapere che la precedente inquilina riceveva uomini in casa. Così una sera, mentre Rana fa la doccia e ha lasciato la porta di casa aperta al marito, un cliente entra in casa. Sono i vicini a soccorrerla, mentre lo sconosciuto fugge via spaventato dalle sue urla e ora Emad non si dà pace, cova vendetta, spera di trovare quell’uomo per punirlo e umiliarlo.

L’iraniano Asghar Farhadi, dopo la parentesi europea con Le passé (con cui Berenice Bejo vinse il premio d’interpretazione proprio qui a Cannes), torna ai livelli altissimi di Una separazione, il suo film vincitore dell’Orso d’oro e dell’Oscar, con questo apologo morale carico di ambiguità e non detto. The Salesman – in concorso a Cannes – riscrive in qualche modo il celebre testo di Arthur Miller, trasportando la riflessione del drammaturgo americano sulla modernizzazione dall’America del 1949 alla Teheran di oggi. Di produzione francese, il film ha un cast di presenze fisse nel cinema del regista iraniano, da Taraneh Alidoosti (Rana) e Shahab Hosseini (Emad) a Babak Karimi, interprete anche di altri due suoi film, un artista che si divide tra l’Iran e l’Italia.

Farhadi, cosa l’ha spinta a tornare a girare in Iran?
In realtà stavo lavorando a un progetto in Spagna, che doveva essere co-prodotto anche dai fratelli Almodovar, eravamo già molto avanti, ma poi ho capito di avere nostalgia del mio paese e Pedro ha capito, anche se la mia decisione l’ha preso alla sprovvista. Forse faremo insieme il prossimo film, ma non ne sono sicuro, perché forse continuerò a lavorare in Iran.


The Salesman si apre con l’immagine di un palazzo che rischia di crollare. Voleva trasmettere un sentimento di ansia legato al fare cinema nel suo paese?
No, per un cineasta in Iran ci sono vantaggi e svantaggi. E io, dopo Una separazione, ho avuto molti vantaggi, sono stato oggetto di entusiasmo e non posso certo parlare di una situazione angosciante. Mi rendo conto che la domanda fa un velato riferimento alla censura, ma quando cresci artisticamente in un ambiente pieno di ostacoli, impari a conviverci. Per un regista europeo o americano sarebbe impensabile lavorare così, ma se sei abituato diventa fonte di energia. Mi dà molta soddisfazione lavorare nel mio paese e continuerò a farlo qualsiasi sia la situazione.

Lei viene dal teatro e questo film è anche un omaggio alla scena teatrale.
In effetti ho studiato teatro e pensavo di lavorare tutta la vita in palcoscenico, solo dopo sono arrivati la radio e il cinema, ma l’amore è rimasto. La cultura della drammaturgia definisce il mio gusto, che si inscrive nella tradizione drammatica.

Qual è il rapporto tra il testo di Arthur Miller e la realtà contemporanea iraniana?
Ci sono due storie parallele: la morte di un commesso viaggiatore in scena e la morte di un venditore nel film, c’è decisamente un rapporto di rispecchiamenti. E’ una mise en abyme. Anche la prostituta della pièce rimanda alla prostituta che abitava nell’appartamento. La descrizione di New York di Arthur Miller ci parla della trasformazione di una città che sta diventando moderna e dei gruppi sociali che non si adattano a questi cambiamenti. Questo corrisponde a qualcosa che sta accadendo in Iran oggi. Teheran si sta sviluppando in modo simile con una corsa sfrenata, folle, verso la modernità, una corsa che può non essere congeniale alla nostra capacità di adattamento, perché i valori tradizionali sono sempre lì. I miei personaggi sono attori di teatro, quindi persone dallo spirito aperto, persone colte, eppure hanno reazioni retrograde e ancestrali. C’è un personaggio che dice ‘avrei voluto distruggere questa città e ricostruirla’. Ma il rinnovamento non si può fare negando ciò che è dentro di noi.

Non sapremo mai cosa è realmente accaduto nel bagno tra Rana e lo sconosciuto.
Non lo so neanche io perché non c’ero. Il pudore è legato alla cultura orientale. C’è un senso dell’intimità del corpo, un senso di violazione della famiglia per l’intrusione di un estraneo. Persino un bambino piccolo che va alla toilette da noi non accetta che una donna sconosciuta possa spogliarlo, la classe dove insegna Emad è solo maschile. Questa dicotomia tra uomini e donne ci viene inculcata da sempre. E’ tipico della nostra società, non lo critico, ma semplicemente lo osservo.

Emad preferisce non denunciare l’aggressore e condurre da solo una sorta di indagine.

In un’altra cultura forse l’uomo avrebbe reagito diversamente. Conta molto anche la reputazione, se i vicini non avessero saputo, Emad avrebbe potuto affrontare le cose in modo diverso. Ma il senso di umiliazione nutre la sua violenza e l’ingranaggio che lo porta a commettere l’irreparabile.

Il suo è appunto anche un discorso sulla violenza, su come si sviluppa gradualmente, impercettibilmente.
Infatti, qui si parla di una violenza che sembra giustificata. Non è un atto di collera, che sarebbe comprensibile, ma una violenza premeditata. C’è un parallelo con gli atti di terrorismo, perché i terroristi sono convinti di fare qualcosa di buono e giustificano i propri atti. E’ difficile resistere alla violenza che si basa su convinzioni ideologiche e questa storia è anche una reazione alla situazione del mondo attuale, anche se non si fa un riferimento diretto al terrorismo. 

Eppure Emad è un intellettuale.
Non sono gli intellettuali ad essere sotto accusa, gli intellettuali sono stati talmente maltrattati e insultati nel nostro paese… Io sono fiero dei nostri intellettuali, di Kiarostami, dei nostri scrittori. Emad è un uomo colto, istruito, anche se non propriamente un intellettuale, è anche un uomo dolce, amoroso, che aiuta i vicini di casa, che reagisce con tolleranza anche alle situazioni sgradevoli, come quando la donna in taxi lo sospetta di averla molestata. Allora mi chiedo: cosa trasforma quest’uomo così gentile e responsabile in un animale? Non sto puntando l’indice accusatore, siete voi che dovete dare una risposta.

C’è anche una dimensione poliziesca nel film.

E’ vero. Io cerco di parlare a spettatori di tutti i tipi, anche quelli più semplici possono trovare una risonanza in questo film. La mia è un’indagine senza detective, perché il detective è lo spettatore stesso.

Cristiana Paternò
21 Maggio 2016

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