Paolo Virzì: “Ve la do io l’America”

Il regista è ospite del Tribeca Film Festival di New York con il suo ultimo film, Il capitale umano, che uscirà negli Usa a gennaio 2015 con FilmMovement


Uscito nelle sale italiane il 9 gennaio, Il capitale umano è l’undicesimo film di Paolo Virzì che per la seconda volta – dopo N (Io e Napoleone) del 2006 – porta un suo lavoro al Tribeca Film Festival, fondato a New York nel 2002 da Robert De Niro. Un approdo quasi naturale per un film che ha nel suo DNA la provincia americana raccontata da Stephen Amidon nel romanzo cui si sono ispirati Paolo Virzì, Francesco Bruni e Francesco Piccolo. Soprattutto in considerazione del fatto che, grazie anche alla spinta di un festival così importante, Il capitale umano avrà una distribuzione statunitense a partire dal prossimo gennaio, affidata alla già nota FilmMovement. Con lui anche le sue due attrici, Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino, la quale era inizialmente stata invitata proprio dal Tribeca a far parte della giuria. “Sono stata costretta a rifiutare – spiega l’attrice – ho capito che se fossi stata in giuria ci sarebbe stato un conflitto di interessi, ma avevo già detto di no. Sarei dovuta rimanere troppi giorni e non avrei potuto, visto che sto iniziando a girare un altro film in Italia”. Si tratta de Il nome del figlio di Francesca Archibugi – con Micaela Ramazzotti, Luigi Lo Cascio, Alessandro Gassmann e Rocco Papaleo – remake di A cena con gli amici ma “fatto all’italiana”. E’ lei a definire “un incantatore di serpenti”, Paolo Virzì, il quale si presta volentieri a un bilancio della missione americana e a un’analisi di alcune interessanti prospettive…

Virzì, come si finisce al Tribeca Film Festival?

Chissà, forse perché la sua sigla è TFF, come un festival a me molto caro. In realtà non mi occupo di strategia internazionale, vendite nel mondo e festival, ne sono totalmente all’oscuro. Ha pensato a tutto la BAC Films che è coproduttore del film e si è fatta carico di tutto. Anche della distribuzione con la FilmMovement, che abbiamo scelto tra varie offerte per poter collaborare con loro proprio in occasione del Tribeca. E’ un festival molto carino, come tutti i festival di grandi città ha proiezioni molto affollate, non prevalentemente da addetti ai lavori, ma da un pubblico vero. Anche per questo lo pensavamo come piattaforma di lancio del film che per ora ha circolato solo nei vari mercati e nelle proiezioni mirate alle vendite internazionali.

Che sembrano confermare un apprezzamento generale…

Infatti, la Indigo l’ha venduto in una trentina di paesi, manca solo di chiudere con l’Argentina e il Messico e poi l’avremo venduto in tutti i paesi del mondo. . Ora inizieranno le uscite nei vari Paesi, la prima delle quali sarà in Portogallo, il 15 maggio.

Un film che continua ad avere un respiro internazionale, insomma?
Sì, e pensare che per noi era stata già una grande sfida dare un senso a un film che nasceva da una scommessa, anche ardita, di prendere una tragedia americana, ambientata nel ricco Connecticut, e immaginarne un adattamento nel Nord Italia.

Negli Usa riescono a cogliere questo collegamento?
Da Hollywood Reporter a Variety, le prime recensioni son state tutte eccellenti, persino più enfatiche di quelle, pure ottime, che ho ricevuto in Italia: Volture l’ha anche inserito in una lista delle migliori cose del Tribeca. Ma mi ha colpito quella del Washington Post, che mi ha mandato lo stesso Amidon. Il giornalista era un appassionato del romanzo originario e ha ammesso che quando aveva saputo che in Italia ne stavano facendo un film era rimasto esterrefatto… perché è forse il romanzo che negli ultimi 15 anni meglio ha raccontato l’America. Visto il film, invece, ha confessato di esser rimasto stupito, e di averlo trovato eccezionale. Evidentemente i temi del denaro, del benessere messo a dura prova dalla crisi, sono temi, non dico universali perché mi suona melenso, ma che si sono globalizzati con il rimpicciolirsi del mondo. Anche se poi ciascun paese ha una sua specificità. E noi non abbiamo certo dimenticato la nostra, nel fare il film. Chi conosce il libro ha ben capito cosa abbiamo cambiato in termini di plot, di personaggi. Una grossa trasformazione è stata proprio quella della struttura narrativa, perché il romanzo sarebbe perfetto per una serie televisiva in 12 puntate. Noi l’abbiamo reso molto più secco e compatto, con nostra divisione in capitoli.

Come ha reagito il pubblico del Tribeca?

Ridono più che in Italia. C’è da fare un lavoro sui sottotitoli, a volte non necessari, come quando danno voce a personaggi di contorno, e lunghi da leggere. Gli americani percepiscono molto l’umorismo del film. Quello che abbiamo incontrato è stato un pubblico molto curioso riguardo all’Italia. Un’Italia inedita, del dopo 2010, dopo le dimissioni di Berlusconi. Sono rimasti divertiti dal racconto della genesi del finale… Avevamo preparato una versione diversa, nel quale raccontavamo l’esito di ciascun personaggio: Dino comprava un bar con i videopoker in Svizzera, Roberta dopo averlo cacciato di casa restava con Serena e i due gemelli e Massimiliano, dopo aver fallito l’esame di ingresso a Harvard si dava a una scuola di recitazione a New York. Il problema è che le risate raccolte erano le stesse che erano arrivate allo screen test, troppe. Ci siamo preoccupati che questo lo rendesse troppo divertente. A me invece piaceva il tono amaro del film, e del finale, che volevo fosse uno schiaffo.

Si aspettava questo successo americano?
Qualche mio film era stato già distribuito, ma sempre nei circuiti arthouse, e sempre in occasione di festival, quindi con un pubblico che va alla ricerca di cinema più raffinato, del cinema del mondo, un pubblico di intellettuali… Per la prima di Caterina va in città, all’Angelika, c’erano Matt Dillon, i fratelli Coen… non è quello il pubblico normale, quello che affolla le sale. Dubito che mi capiterà mai di poterlo osservare dal vivo, in sala, a meno che io non faccia un film in lingua inglese…

Perché no? Magari dopo questa tappa di avvicinamento…
Possibile, magari un action movie in lingua inglese, cosi poi potrò raccontare il pubblico mainstream statunitense. Per ora conosco quello mainstream italiano, perché sono uno che si va a infilare nelle multisala, calandomi il berretto per non farmi riconoscere. L’ho sempre fatto, e per tanti motivi, dai controlli tecnici, alla curiosità di vedere come è percepito il film. Perché il cinema per me è quella cosa lì, da condividere con tante persone. Ho sempre cercato di fare un cinema popolare, per cui il momento dell’incontro col pubblico è sacro.

Ci sono già progetti per il futuro?
Delle proposte sono già arrivate, lavorerò anche come sceneggiatore, oltre che come regista, all’adattamento di romanzi.

Mattia Pasquini
23 Aprile 2014

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