Michele Santoro: “Altro che Gomorra, questo è un welfare criminale”

Il giornalista è al Lido con Robinù, crudo documentario sulla cosidetta "paranza dei bambini", la nuova leva di killer minorenni napoletani, un'emergenza di cui si parla troppo poco. In sala a ottobre


VENEZIA – E’ un welfare criminale quello fotografato da Michele Santoro nel suo primo documentario per il cinema, Robinù, presentato a Venezia nella sezione Cinema in Giardino. Storie di ragazzini che a 15 anni già sparano e ammazzano, baby boss protagonisti della “paranza dei bambini” (è anche il titolo del nuovo libro di Roberto Saviano), quei giovanissimi che sono riusciti a imporsi come la nuova camorra per il controllo del traffico della droga andando contro ‘o sistema. E così i due adolescenti armati di kalashnikov di Gomorra prendono corpo e voce per raccontare le loro precarie esistenze fatte di violenza e sogni di potere, storie che sembrano uscite da un gangster movie ma che ci mostrano un’Italia parallela, dove l’obbligo scolastico viene eluso e dove le madri spacciano per poche centinaia di euro. Uno di quei ragazzi, Michele, faccia d’angelo ma spietato come un nuovo Vallanzasca, lo incontriamo da vicino, in prigione, dove riceve centinaia di lettere da adolescenti innamorate. Ha un fratello piazzaiolo che è scappato a Parigi perché è la pecora nera della famiglia, l’unico onesto.

Un documentario crudo, secco e di grande impatto che vedremo al cinema con Videa il 6 e 7 dicembre come evento speciale ma che potrebbe non trovare spazio in tv. E il giornalista salernitano è pronto a polemizzare con la Rai che invita a svolgere la sua funzione di servizio pubblico. Lui tornerà il 5 ottobre in prima serata su Raidue con una puntata proprio da Napoli. “Il documentario – ha detto – dovrebbe essere al primo posto nel contratto di servizio. Il nuovo gruppo dirigente Rai è sensibile, attento e colto, ma è come se fosse piegato ad una logica della rappresentazione del reale ordinata, pedagogica, ispirata ai buoni sentimenti, bisogna invece fare un atto coraggioso, una scelta politica di rappresentare la realtà disordinata come è. Non parlo per me ma per i giovani autori che fanno tanta fatica a trovare spazio”. Robinù è scritto insieme a Maddalena Oliva e Micaela Farrocco e prodotto dallo stesso Santoro con Sandro Parenzo. 

Da cosa prende le mosse il documentario?
Siamo partiti da una grande notizia dimenticata, quella della paranza dei bambini: dopo il declino della famiglia Giuliano è venuta fuori una nuova generazione di camorristi, giovanissimi. Abbiamo trovato una continuità tra quartiere e carcere… Siamo abituati a vederli come cinici killer nelle fiction, ma lì sono ridotti a maschere, non c’è la realtà. Si dice: ‘quella non è Napoli, non è Italia, quei fatti incidono negativamente sull’immagine del paese e della città’. E invece bisogna raccontarli.

Quali sono i punti di contatto o le differenze con una serie come Gomorra che ha fatto conoscere comunque queste realtà in tutta Italia?
La fiction coglie soprattutto la spietatezza, i giovani camorristi sparano senza pensare, e porta a tipizzare i personaggi, è univoca. Invece questi ragazzi quando vedono la mamma si sciolgono in lacrime. Michele esprime bene questa ambiguità, è una star criminale, le donne gli scrivono in carcere, e ha questo rapporto con la famiglia. 

Avete trovato anche grande umanità nel ventre molle e violento di Napoli?
A 15/16 anni fai primo figlio, a 35 diventi nonno. Lo fa perché hai una passione vera verso la vita, una capacità di appassionarti che noi non abbiamo. Nonostante la nostra freddezza di partenza hanno finito per scaldarci.

Perché il passaggio dalla televisione al cinema? Cosa è scattato?

La televisione ti assorbe, ma stavolta abbiamo provato. Già il mio precedente documentario, La mafia bianca, girato per la tv, fu un successo in dvd. Il cinema era un sottotesto della nostra vita, qui è diventato il testo. Ricordo quando alcuni grandi autori riconobbero il valore di quello che facevamo in tv con Samarcanda: Bertolucci, Scola, Maselli e Gillo Pontecorvo mi fecero i complimenti. Fu un momento importante per me che li ammiravo da sempre. Poi ho avuto un progetto di fiction su Salvatore Giuliano ma fu cancellato ai tempi dell’editto bulgaro di Berlusconi. 

Cosa la affascina in Napoli?
Napoli è l’unica grande metropoli europea con un’anima popolare, le altre città sono ormai bed and breakfast per turisti. Lì, tra Forcella e il centro storico, ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono così. Le donne che preparano la colazione ai figli piccoli e poi spacciano la cocaina, le madri agli arresti domiciliari. Napoli è la principale piazza di spaccio in Europa, questo produce un pil criminale che ci permette di dimenticare questa realtà. C’è appena stata una cruenta rivolta nel carcere minorile di Airola ma non è neppure finita sulle prime pagine dei giornali nazionali. Come fa lo Stato a sopportare che questi ragazzi evadano l’obbligo scolastico? C’è una complicità criminale delle istituzioni.

Come mai?
Come li mettiamo a posto questi quartieri? Con quali soldi? Come ci sostituiamo al welfare criminale? Facciamo la scelta dell’ipocrisia e li condanniamo a morire o stare in carcere.

Non c’è il rischio di un’eccessiva empatia un po’ assolutoria nei confronti di questi baby killer? Oppure di alimentare una mitologia del gamgster. Anche la serie tv Gomorra è stata accusata di farlo.
Eduardo di fronte a questi ragazzi piangeva. Li assolveva? No, ma aveva un senso di colpa. Quanto a Gomorra, loro neanche la vedono, non hanno certo Sky. Guardano piuttosto all’Isis e infatti si fanno crescere la barba, si comportano come persone che vogliono controllare un territorio. Che facciamo allora? Bombardiamo anche qui?

Lei parla di latitanza delle istituzioni. A chi farebbe vedere Robinù?

Al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. Mattarella potrebbe avere uno scatto, entrare nelle carceri, stabilire un dialogo. Per il terremoto l’ha fatto, ma aprire questa porta richiede una determinazione maggiore. Poi lo farei vedere al ministro della Pubblica Istruzione, visto che c’è un’evasione dell’obbligo scolastico che tutti fingono di non vedere. E mi piacerebbe che lo vedesse anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che è qui al Lido. 

Ha autoprodotto il film insieme a Sandro Parenzo. 
Se avessi proposto questo lavoro agli editori, avrei avuto le solite risposte, fallo in cinque puntate. Non esiste un editore in Italia con questo coraggio. Ma il mio sogno è che il pubblico si impadronisca di questo film e gli dia lo spazio di mercato per farlo vivere. E mi piacerebbe che la Rai ne facesse una prima serata: questo è servizio pubblico.

Cristiana Paternò
07 Settembre 2016

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