Federica Di Giacomo: “Esorcismo, non solo horror”

La regista ci parla del suo documentario Liberami, in concorso a Orizzonti, una lunga ricerca nel mondo della possessione come metafora del bisogno contemporaneo di cura


VENEZIA – “Non è un documentario sulla possessione demoniaca, ma un percorso di ricerca, un flusso di domande aperte nel quale mi sono immersa anche io”, così Federica Di Giacomo, autrice di Liberami, il documentario in gara a Venezia (sezione Orizzonti) che si concentra su alcuni casi di possessione nel palermitano presi in carica dal prete esorcista Padre Cataldo. L’abbiamo intervistata.

Liberami, il titolo, in prima persona singolare: perché questa scelta?

Finalmente qualcuno mi fa questa domanda, diversa. “Liberami” ci piaceva, è un’invocazione e dà un po’ il senso del sentimento che abbiamo percepito nelle persone che abbiamo incontrato, cioè una buona metafora di questa ricerca spasmodica di senso che tutti stiamo attuando in questa società e che ci porta ad essere molto soli e confusi, con la moltiplicazione delle possibilità terapeutiche. Quindi, Liberami rifletteva molti passi dell’invocazione che si fa nella messa: è stato il “liberaci dal male” attualizzato, perché fosse più contemporaneo, perché fosse metafora di un’invocazione molto più diffusa, collettiva, quella della ricerca ossessiva di una soluzione che forse nemmeno più riusciamo a categorizzare.

Come ha costruito il documentario?
È iniziato in Sicilia perché io vivo anche in Sicilia e quindi lì ho iniziato le ricerche, dopo aver letto la notizia di un corso di formazione per esorcisti. Ho incontrato quasi subito dei preti disposti a parlarne. Poi, naturalmente, c’è voluto molto tempo e molta frequentazione delle messe per convincerli della nostra serietà, di quella del progetto, e per avere i permessi formali per girare. Quasi subito ho, però, trovato la chiesa di padre Cataldo, proprio per la quantità delle persone che andavano: per questo suo carattere estremamente forte, irruente e ironico, lui si poneva come perfetta unità narrativa. Il fatto che le persone frequentassero la chiesa quotidianamente ci dava l’unità di tempo, centrando tutto il film sulla quotidianità, in una specie di lunga giornata interminabile, perché la novità del nostro film era rappresentare l’esorcismo metabolizzato nel quotidiano e la possessione come uno stato fluido, quindi non più secondo l’immaginario proposto dai film horror ma come uno stato in cui e da cui si può entrare e uscire molto velocemente, per cui anche la “liberazione” diventa un concetto non definitivo, perché nessuno può dire se qualcuno si sia liberato dal male assoluto o meno. Poi, la costruzione finale del film, che si struttura come un’unica lunga giornata, è il risultato di tantissime lunghe giornate riprese per tre anni, anche perché all’inizio è stato auto prodotto, con diversi momenti di stallo, con ricerca di fondi, incertezza sulla finalizzazione, ma il continuo flusso di domande sulla struttura ha, infine, dato vitalità al film.

Le persone, invece, come è riuscita ad avvicinarle e coinvolgerle?
C’è voluto molto tempo, molte persone sono entrate e uscite dal film, quello che abbiamo intercettato è che alcuni però ci vedessero come persone con cui parlarne e questo era già un po’ liberatorio per loro, avevano molta paura del giudizio esterno. Nel momento in cui loro stavano nel regno delle domande sulla possessione, alcuni di loro credo abbiano deciso di farlo per aiutare chi si trovava, improvvisamente, senza cause spiegabili, in questo stato. Questo ha portato le persone a essere più disponibili a mostrarsi sia durante gli esorcismi che fuori, perché fuori significava coinvolgere famiglia, sfera personale, mentre durante l’esorcismo stavano facendo qualcosa che era assurdo ma poteva forse aiutare anche altri.

Sul tema dell’esorcismo c’è molta conoscenza specifica ma anche molta fantasia: c’è qualcosa di particolare che ha scoperto, che nemmeno si immaginava, oppure si è “solo” focalizzata sul centro del tema?

Quello che mi ha fatto decidere all’inizio di fare il film è che il primo esorcismo a cui ho assistito aveva degli elementi in comune con quelli che il cinema ci aveva proposto. Tutta la nostra conoscenza sul tema, fino all’inizio del documentario, derivava solo dal cinema o da servizi sensazionalistici, e quindi c’era un vuoto. La prima cosa fantastica che ho visto è stata la quantità enorme di sfumature che c’erano, non solo il dramma, non solo voci cavernicole, ma c’erano dubbi, combattimento spirituale tra il posseduto e il prete, c’era il telefono che suonava durante il rito, la signora con la spesa di cavolfiori, e quindi il soggetto diventava molto interessante, perché umano, e quindi io lo potevo raccontare.

Si è concentrata principalmente sul fenomeno in Sicilia: non ha pensato o sentito l’esigenza di documentare anche altre zone del Paese?
Ho pensato di indagare anche altrove e ne ho avuto occasione, perché al corso ho conosciuto esorcisti da tutto il mondo, ma avrebbe significato cambiare il linguaggio e quindi siccome io voglio fare film in cui non ci siano interviste, e ci sia meno spiegazione possibile da parte mia, avrei sfilacciato la narrazione, avrei aperto la dimensione razionale e invece io volevo tenere al centro l’idea che fosse una storia che può succedere anche nella chiesa dietro casa, perché quello era più identificante, secondo me.

Padre Cataldo o qualcuno dei posseduti hanno visto il film? Ci sono state reazioni?
Padre Cataldo ha visto le sue parti e molti di loro hanno visto dei pezzi, spesso quasi in contemporanea con le riprese, per capire come fossero durante il rito. Le reazioni sono state forti, molto forti, positive ma intense: padre Cataldo era contento, si è fidato molto di noi e noi di lui, gli siamo completamente debitori. Le persone disturbate hanno avuto un impatto forte, ma l’hanno accettato. 

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