Andrew Dominik: “Elaborazione del lutto in 3D”

Il documentario One More Time With Feeling, pensato per la visione in 3D, segue Nick Cave e la sua band durante la registrazione del nuovo album


Doveva essere solo una manovra promozionale, un biglietto da visita cinematografico da far girare nelle sale a supporto del nuovo album di Nick Cave, Skeleton Tree, uscito il 9 settembre. E invece il documentario One More Time with Feeling di Andrew Dominik (L’assassinio di Jesse James, Coogan – Killing Them Softly), presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è diventato subito qualcos’altro. Girato in bianco e nero e pensato per la visione in 3D, il film (in sala il 27 e il 28 settembre) segue Cave sia in studio insieme alla band, durante le fasi di registrazione dell’album, che nella casa di Brighton che il musicista australiano condivide con la moglie Susie Bick e il figlio Earl. Il nome di Arthur, il figlio quindicenne precipitato da una scogliera lo scorso luglio, compare solo nella seconda metà del film. Ma la sua assenza e il trauma della perdita sono evidenti fin dalle prime note della canzone che dà l’avvio al film, con il suo testo ermetico e l’andamento oscuro e ipnotico. Legato a Dominik da trent’anni di amicizia, Cave sceglie il suo film per raccontare per la prima volta, a un anno dal fatale incidente, il violento impatto che la morte ha avuto nel suo cuore e nella sua ispirazione. Lasciando all’amico regista il compito di presentare a Venezia, in anteprima mondiale, la più dolorosa delle confessioni.

Come ha conosciuto Nick Cave?
L’ho incontrato a fine anni ’80 a Melbourne. Avevamo una fidanzata in comune, Deanna. Cave le aveva dedicato una canzone nel 1988. Cominciai a uscire con lei circa tre mesi dopo che si erano lasciati: lui ogni tanto la chiamava e così abbiamo cominciato a parlarci al telefono. Ci siamo subito piaciuti, negli anni siamo diventati amici. Quando Arthur è morto mi sono preoccupato immediatamente per lui.

Perché Cave ha voluto fare questo film?
Per proteggersi. A un certo punto ha realizzato che per promuovere il disco avrebbe dovuto confrontarsi con i giornalisti, che gli avrebbero fatto molte domande sulla sua vita, su Arthur. Il film gli è sembrato il modo più confortevole per affrontare la questione.

E lei? Ha accettato subito?
Sapevo che non sarebbe stato facile, che avrei dovuto spingerlo a parlare di quello che era successo, che ci sarebbe voluto un po’. Ma sapevo anche che Nick era pronto per affrontare questa avventura.

Perché il 3D?

Qualche anno fa ho comprato una macchina fotografica 3D e mi sono divertito a scattare moltissime foto. Mi piace come il 3D restituisce la realtà, ha un fascino che definirei voyeuristico. In un film voyeuristico come il mio, mi pareva ideale per creare un senso di intimità ma anche di claustrofobia.

E il bianco e nero?
Il bianco e nero consegna allo spettatore uno sguardo più fresco sulla realtà. E poi è elegante, e la sua capacità di creare distanza contrasta con la natura avvolgente del 3D.

Ha pensato subito di servirsi della voice over di Cave?
No. All’inizio il film doveva comporsi solo di canzoni, di spezzoni di backstage e di interviste nella casa di Brighton. A un certo punto però ho capito che mi serviva una voce che tenesse insieme tutti questi momenti, che suggerisse il percorso di un uomo che cerca di tornare alla sua vita nonostante la grande confusione interiore.

Il testo lo ha concordato con lui?
Mandavo a Nick degli argomenti generali o delle suggestioni, su cui lui leggeva poesie, componeva testi, in qualche caso raccontava i suoi sogni. Registrava la voce sull’iphone e mi mandava il materiale, che io provavo di volta in volta a montare sulle immagini.

Come ha trovato l’equilibrio tra interviste e canzoni?

Tutto il materiale è organizzato intorno alla musica. Le interviste e gli spezzoni di backstage suggeriscono allo spettatore da dove provenga l’ispirazione delle canzoni. Per esempio: l’intervista di Susie è montata poco prima di Girl in Amber, che parla di una donna in lutto.

Amy, Marley, Janis, Montage of Heck: il biopic musicale vive un periodo molto fortunato…
È vero. Personalmente ho amato molto Amy, ma il mio riferimento per questo film è stato Don’t look back, il biopic su Dylan.

In che rapporto è One More Time with Feeling con il precedente film su Cave, 20.000 giorni sulla terra?
Sono film vicini ma differenti nel tono. Il protagonista è lo stesso, Cave, ma qui è alle prese con una situazione molto diversa. I produttori avevano paura del confronto tra le due pellicole. Per me il rischio di ripetersi non c’era perché Cave oggi è un uomo diverso.

Aveva intenzione di mostrare l’uomo oltre il mito?
Ci sono tanti Nick: il Nick performer semidio, il Nick ragazzo spaventato dietro al microfono, il Nick privato in famiglia…. La mia intenzione era quella di comporre il ritratto di una persona che si trova ad affrontare una sfida enorme. Se questo film ha un valore è nel suo saper esporre un tema universale, quello della perdita e della morte. E Nick ha il merito di averci mostrato il suo viaggio personale.

Cave ha visto il film?

Sì. Non gli è piaciuta l’immagine finale, quella della scogliera (il picco da cui è caduto Arthur, ndr). Lui e la moglie hanno un rapporto diverso con quel posto: lei ci va praticamente tutti i giorni, lui mai. L’ho messa nel film semplicemente perché è bella: c’è il mare, il cielo, dà un senso di eternità. Rappresenta la bellezza nell’orrore. Quanto al film, dopo averlo visto la sua prima reazione è stata di rifiuto. Poi lo ha rivisto e mi ha detto: “Mi sono sbagliato, è molto bello”. Una cosa è certa: non potrà mai vederlo con i nostri stessi occhi.      

Ilaria Ravarino
13 Settembre 2016

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