Marco Bellocchio: “I festival servono, nonostante la crisi”

A Mantova, dove ha ricevuto il Premio Fice, abbiamo incontrato il regista piacentino per parlare di Fai bei sogni, nelle sale italiane dal 10 novembre dopo l'anteprima alla Quinzaine di Cannes


MANTOVA – “Un riconoscimento importante e anche esteticamente bello”. Così il regista Marco Bellocchio commenta il premio che la Federazione Italiana Cinema Essai ha deciso di assegnargli come “miglior regista italiano per il cinema d’autore”. Protagonista del primo degli appuntamenti della XVI edizione degli Incontri del Cinema d’Essai, il regista ha raccontato la sua nuova esperienza dietro la macchina da presa: Fai bei sogni, presentato in anteprima al Festival di Cannes e dal 10 novembre nelle sale italiane.

A qualche mese di distanza da Cannes può dirci quale ruolo hanno i festival per un autore affermato come lei?
Le rispondo così: ogni film è una storia a sé, poi capita che ci sia Cannes, o Venezia, o Toronto. Nonostante la crisi evidente, che non possiamo negare, i festival servono. Soprattutto promozionalmente. Ecco perché i distributori tendono a fare uscire subito i film. Rai Cinema questa volta ha scelto diversamente: speriamo che ora che è passato un po’ di tempo da Cannes il mio film vada meglio in sala.

Perché ha scelto proprio il libro autobiografico di Gramellini?
Più che una scelta personale, si è trattato di una proposta: il film mi è stato proposto e io sono rimasto colpito dalla storia ricca di amore e dolore del libro. Trasferirla al cinema è stato complicato, ha richiesto un lungo lavoro con gli sceneggiatori. Mi affascinava il dolore ininterrotto che permette al protagonista di vivere una vita sentimentale separata dalla sua madre. E quasi invidiavo quel rapporto di affetto totale tra madre e figlio, che a me, provenendo da una famiglia numerosa, un po’ è mancato.

Com’è stato il rapporto con Gramellini?
L’ho consultato per conoscere la sua opinione ad ogni passo, mi ha sempre lasciato massima libertà, comprendendo che era il ‘suo’ libro ma la ‘mia’ rappresentazione. In fase di riprese è venuto a trovarci una sola volta, è rimasto colpito dalla Ronchi che rappresentava sua madre, per il resto è sempre stato con me gentile e affettuoso. Credo che sul set in poche ore abbia rivissuto quello struggimento che è stata la sua vita e lo ha segnato per tanti anni.

Da Piera degli Esposti a Roberto Herlitzka passando per Fabrizio Gifuni, compaiono nel film attori a lei cari, con cui ha lavorato più volte. Come mai per il ruolo da protagonista ha scelto un volto inedito per il suo cinema, come Valerio Mastandrea?
Mastandrea si è reso molto disponibile, abbiamo fatto un provino, si è dimostrato molto gentile. Trovo che lo sguardo sia fondamentale per un attore: lui possiede uno sguardo leggermente malinconico, triste, o comunque può rappresentarlo bene, e per me questo va ben oltre il fatto che non parli torinese e la sua esperienza di vita sia completamente diversa. Questo suo saper comunicare la tristezza mi è parsa la cifra giusta per il personaggio.

Due i volti femminili francesi del cast: Bérénice Bejo e Emmanuelle Devos, come le ha scelte?  
Per Bejo mi interessava trovare un’immagine molto sensuale, femminile, ma al tempo stesso con una sua fermezza, un non voler assecondare Massimo nella sua debolezza, quel saper contrapporsi con amore, ecco la chiave del loro rapporto. Invece Devos è un personaggio inventato, però il suo amore morboso verso il figlio riporta Massimo pre-adolescente alla perdita disperata e inconsolabile della madre.

La fotografia di Daniele Ciprì svolge un ruolo importante nella caratterizzazione dei personaggi, nel disegno dei volti. Come avete lavorato?
Considero Ciprì anche un grande regista, oltre che un maestro della luce, capace di arricchire i suggerimenti che gli do: la fotografia nel film è aspra, discreta ma anche espressiva. C’è stata grande pazienza e accuratezza nei dettagli degli interni: il lavoro meglio riuscito è certo dentro la casa di Massimo Gramellini.

Il film racconta anche il mondo del giornalismo…
Ci tengo a dire che non voleva essere un’indagine sul giornalismo, né tanto meno un film che si occupa di attualità. A me interessava non il giornalismo di per sé, ma la storia di un uomo che nel giornalismo cerca una risposta e una copertura al proprio vuoto sentimentale. E ho cercato di rappresentarlo come scritto nel libro. 

Leggi anche l’intervista Marco Bellocchio, il fantasma della madre

Claudia Catalli
05 Ottobre 2016

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