Ciro De Caro: quando la crisi è un’opportunità

In sala dal 20 aprile, dopo l'anteprima alla Festa di Roma, "Acqua di marzo", il nuovo film di Ciro De Caro che ritorna sul grande schermo dopo il successo di "Spaghetti Story"


Acqua di marzo è una commedia sentimentale che parla del coraggio di andare fino in fondo e delle tante piccole ipocrisie che ci raccontiamo ogni giorno per andare avanti. Ma anche di come il tempo, prima o poi, ci metta tutti con le spalle al muro e di come il cambiamento irrompa sempre violentemente nelle nostre vite, come fa un acquazzone primaverile che arriva a interrompere l’immobilismo dell’inverno. “Ma la crisi non ha mai un valore negativo”, sottolinea il regista Ciro De Caro. “Le cose più grandi vengono fatte negli attimi di difficoltà. Momenti di svolta che possono aprire a scelte differenti, che magari non avremmo mai fatto, e all’opportunità di trovare una strada migliore”.  Acqua di marzo è prodotto dall’Alba 3000 di Bruno Altissimi, Lino Banfi, Fabio Leoni e Walter Zagaria e verrà distribuito dalla Mediterranea Productions di Angelo Bassi dal 20 aprile.  

Cosa rappresenta “l’acqua di marzo” che dà il titolo al film e che a un certo punto arriva a bagnare i protagonisti?
  
L’acqua di marzo è il momento catartico in cui tutti i personaggi si lasciano andare. Molti di loro vivono come in un inverno, ma a un certo punto è come se si rompessero le acque. La primavera, anche se non cercata, irrompe con i suoi acquazzoni. Questa forza, anche violenta per certi versi, rappresenta la rottura del velo e del simulacro.

La crisi che si presenta come un’opportunità? 
Mi ha sempre molto incuriosito il fatto che i cinesi usassero la stessa parola per esprimere sia il concetto di crisi che quello di opportunità. Effettivamente ritengo che la crisi non abbia un valore negativo, mai.  Le cose migliori vengono fatte negli attimi di crisi, che possono diventare il momento in cui ci si apre a scelte differenti, che magari non avremmo mai fatto, e all’opportunità di trovare una strada migliore. 

I personaggi per buona parte del film si muovono in una sorta di limbo, un universo cristallizzato e immobile. Da cosa nasce questa condizione di fissità? 
L’immobilismo scaturisce dall’ipocrisia e dalla paura. Ci fingiamo contenti e soddisfatti della nostra vita anche quando non è così. Continuiamo a raccontarci bugie socialmente accettate che diventano come una vecchia e comoda poltrona che ci impedisce però di alzarci e mettere la testa fuori. Acqua di marzo è un film che parla del coraggio di andare fino in fondo. Del cambiamento che nel film scaturisce dall’intervento dei personaggi femminili: alla fine sono le donne a iniziare a grattare sotto la superficie e a spingere anche gli uomini a porsi delle domande. 

Uno dei protagonisti femminili sottolinea come l’audacia, se non esercitata, si consumi e ci consumi.
Cercavo un monologo che offrisse una chiave di lettura a quanto messo fino a quel momento in scena, e la mia co-sceneggiatrice, Rossella D’Andrea, ha tirato fuori una sua frase che aveva scritto nel passato e l’ha offerta al personaggio. Possiamo far finta di non sentire il bisogno di andare verso le nostre esigenze e la nostra realizzazione ma l’audacia è un dono comune a tutti che, se sprecato, diventa una forza negativa, una zavorra che spinge inesorabilmente verso il basso. Come una candela tenuta in una stanza chiusa che smette di dare luce e finisce col bruciare tutto l’ossigeno a disposizione.  

Ci parli del rapporto dei personaggi con il proprio passato.
Tante persone tagliano i ponti con le proprie radici per sfuggire, apparentemente dalla provincia ma in realtà da qualcosa che non riescono ad affrontare. Il protagonista per chiudere un cerchio deve tornare indietro alla propria adolescenza che aveva lasciato fuggendo. Più che una rinascita la sua è una presa di coscienza. Se vogliamo evolverci è necessario fare i conti col passato, mettere anche le mani nello sporco, se necessario, per guardare in faccia senza trucchi o inganni i nostri mostri interiori. 

Ci sono diversi temi impegnativi, come la prepotenza generazionale o il diritto alla morte, affrontati nel film con inusuale leggerezza. 
Non ritengo così efficace trattare i temi in maniera didascalica e spudorata. Preferisco un racconto velato che faccia trapelare anche grandi temi in maniera semplice.  Dalla vite comuni e quotidiane dei miei personaggi, persone normali in cui chiunque può immedesimarsi. Per rendersi conto che i grandi temi, anche se sembrano distanti, si vivono ogni giorno e dipendono dalle nostre scelte quotidiane.      

Carmen Diotaiuti
14 Ottobre 2016

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