Gabriele Salvatores: “Internet, la più grande delusione”

Guest director del Torino FF, il regista parte da Nirvana per confessare la sua preoccupazione: "I social network sono pericolosi, alimentano la solitudine dei giovani"


TORINO – “Sono uno stupido vecchio hippie romantico e credo che una canzone di Leonard Cohen o di David Bowie possa cambiare la nostra vita più di tanti politici. Come diceva Goya se abbiamo l’arte è per non morire di troppa verità”. Parla così Gabriele Salvatores, guest director della 34ma edizione del TFF, rendendo omaggio a due grandi della musica scomparsi nel 2016. A Bowie, che se n’è andato a gennaio, è dedicata la locandina del festival, con quell’immagine iconica ripresa di Absolute Beginners, un’immagine che ieri sera, durante l’inaugurazione, ha strappato l’applauso alla platea dell’auditorium del Lingotto (c’era anche la nuova sindaca Chiara Appendino). E anche la madrina Jasmine Trinca ha voluto ricordare l’artista inglese: “Mia madre mi faceva ascoltare le sue canzoni e mi faceva vedere i suoi film che oggi mostro a mia figlia Elsa, perché la cultura si trasmette da una generazione all’altra, di madre in figlia”.

Salvatores è qui al Festival con Nirvana (1997) tra i titoli della retrospettiva “Cose che verranno”, e con i suoi “Cinque pezzi facili”, cinque film che, come ha raccontato tante volte, l’hanno convinto a mollare la strada tracciata da suo padre, che faceva l’avvocato, per dedicarsi al cinema. Ne ha parlato stamattina incontrando i giornalisti.

Nirvana
, raro caso di fantascienza italiana, voleva essere un film distopico?

Viviamo sempre più in una società liquida, per dirla con Bauman, una società difficile da afferrare così come è difficile definire il termine distopico. Nirvana era un film su cosa è vero e cosa è finto: siamo dentro la realtà o in qualcosa pensato da altri? Questa domanda se la ponevano anche Calderon de la Barca, Pirandello e Shakespeare.

Qual è, tra i cinque pezzi facili che ha scelto, il suo preferito?

Jules e Jim per un fatto emozionale. Dal punto di vista cinematografico Blow up di Antonioni per l’equilibrio straordinario delle inquadrature, non ce n’è una che non sia significativa. Gli altri film sono allo stesso livello. Ma Jules e Jim ha qualcosa di speciale, da poco ho riletto un’intervista a Truffaut in cui raccontava di aver scoperto il romanzo di Henri-Pierre Roché su una bancarella tra i libri di seconda mano e di essere stato affascinato dal titolo con queste due “J” così dolci. Anche noi ci ricordiamo di quel titolo per questo motivo.

Qual è stato il suo approccio al cinema in quegli anni, gli anni ’60?

Non sono un cinéphile, andavo al cinema per cercare emozioni e indicazioni di vita. Mi dicevo: vorrei essere come quel personaggio, mi piace come cammina, come si pettina. Per esempio ho indossato a lungo degli occhiali uguali a quelli del protagonista di Fragole e sangue. La scoperta del cinema d’autore è arrivata in un secondo momento.

Perché ha inserito fra i cinque titoli Alice’s Restaurant?

Amo la musica. Mi sarebbe piaciuto fare il musicista. In Alice’s Restaurant c’è il figlio di Woody Guthrie, che allora era morto da poco. Quel film racconta la voglia di aggregazione tra persone che non trovano un posto preciso nella società e si ritrovano attorno a questa figura femminile inafferrabile. Al ristorante di Alice trovate tutto quello che volete, tranne Alice. Per fortuna la donna è mobile, è difficile afferrarla. Noi uomini forse abbiamo i muscoli per proteggere questo volo libero. La donna vola e l’uomo dovrebbe tenere il nido.

Che ricordo aveva di Blow up? Le piacque all’epoca il tennis senza pallina?

C’è un’idea meravigliosa in quella scena perché dopo un po’ che lui li guarda, il gioco diventa reale e si sente il suono della pallina che non c’è. Anche in questo caso si tratta di riflettere su cosa è vero e cosa è finto. Persino quello che hai fotografato non si sa se sia vero. Più lo ingrandisci più perde di senso, si sgrana. C’è un’ambiguità meravigliosa tra il credere che quello che stai vedendo sia vero e la coscienza di sapere che è stato creato in modo artefatto.

If… e Fragole e sangue sono due film decisamente movimentisti.
Esprimevano bene l’epoca. If… l’ho rivisto subito prima di venire qui. E’ di una modernità incredibile. Malcolm McDowell ha la sfrontatezza irritante tipica della giovinezza.

Tra i suoi tanti film, spesso così diversi uno dall’altro, quali considera “cinque pezzi facili”?
Faccio fatica a rivedere i miei film perché gli errori restano a differenza del teatro dove puoi correggere ogni sera qualcosa. Ma forse cinque che valgono il mestiere di regista ci sono. A Marrakech Express sono molto affezionato perché è stato l’inizio di tutto. Turné parla di due amici innamorati della stessa donna ed era vero per me ma anche per gli sceneggiatori Francesca Marciano e Fabrizio Bentivoglio e persino per il produttore Minervini. Educazione siberiana lo rivedo senza vomitare. Poi ce n’è uno che non è piaciuto a nessuno, Denti, ma a me piace.

Lei avrebbe dovuto dirigere il Torino Film Festival anni fa, ma rinunciò.

Quando mi chiesero di dirigere il festival stavo lavorando a due film, Educazione siberiana e Il ragazzo invisibile, non potevo accettare. Del resto non è obbligatorio fare il direttore di festival, come non è obbligatorio fare una serie televisiva. 

Ma come dovrebbe essere un festival di cinema per Salvatores?

Questo di Torino è un festival bello e che funziona. Venezia ha mostrato una vitalità invidiabile. Come si fa a inventarsi qualcosa? Forse si potrebbe riflettere sui modi di visione. La sala non morirà mai ma è solo uno dei posti dove si può vedere un film. Forse bisognerebbe fare un festival che non è in un luogo fisico.

I suoi film preferiti li ha rivelati. E quelli che le creano qualche difficoltà quali sono?
Non so, ci dovrei pensare. L’anno scorso a Marienbad è un film difficile e bellissimo. Poi mi viene in mente Clint Eastwood, così bravo e così stupido per le sue dichiarazioni politiche. Come si fa a fare Gran Torino e poi dire che stai con Trump? Leone diceva che Clint aveva due espressioni, col cappello o senza. Forse le cose migliori le ha fatte col cappello.

Il suo cinema sa parlare dei giovanissimi e dialogare con gli adolescenti, che oggi vivono un serio problema di solitudine.

La solitudine dei ragazzi è un problema fondamentale. Internet è stata la più grande delusione di questi anni. Ai tempi di Nirvana credevo che fosse un territorio libero di frontiera invece è diventato un supermercato o uno stadio dove sfogare rancori, frustrazioni e invidie e un trucco per farti sentire per finta connesso con qualcosa. Non sono contro la tecnologia, ma non bisogna farsi usare. La solitudine è una cosa imposta. La giovinezza è un’età pericolosa e i social network sono veramente pericolosi. So che vado controcorrente nel dire questo.

A proposito di adolescenti, sta lavorando al seguito de Il ragazzo invisibile, scritto con Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, e interpretato ancora una volta dal giovane Ludovico Girardello.

Posso dirvi poco, ci saranno altre occasioni per parlarne. Il nuovo film uscirà tra un anno, ho appena finito di girarlo. Ci sono gli stessi personaggi, ma il ragazzo adesso ha 16 anni. Diciamo che è il Boyhood di un supereroe. Ludovico è diventato un attore vero e da grande vuole fare regista di teatro. Galatea Bellugi interpreta Natasha, la sorella gemella di Michele, è francese e diventerà molto nota. E’ figlia di un attore del Theatre du soleil con cui lavoravo negli anni ’70. Il film ha temi più complessi del precedente. Parla di come i figli che vogliono usare il potere ereditato dai genitori devono riconquistarlo da capo, è un concetto freudiano. Ci sono due madri, due fratelli gemelli, due sentimenti, il due è ricorrente per questa seconda generazione che lascerà un’eredità a sua volta.

Cristiana Paternò
19 Novembre 2016

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