Enrico Maria Artale: “Quella volta che ho incontrato mio padre”

Il viaggio alla ricerca di un padre mai conosciuto e il coraggio di bussare alla sua porta. Un incontro sfuggito, rifiutato e desiderato per venticinque anni, interamente ripreso dalla telecamera


TORINO – La voce profonda e poco comprensibile di un uomo nella segreteria telefonica: è la prima volta che ascolta la voce di suo padre. Parte così Saro, il documentario di Enrico Maria Artale (Il terzo tempo, Premio Pasinetti a Venezia 70) che racconta al TFF, in concorso ad Italiana.doc, il suo viaggio personale alla ricerca di un padre mai conosciuto. Il film si snoda tra i paesaggi della Sicilia, alla ricerca delle origini della sua famiglia, quasi a rispondere al bisogno di voler dare un’immagine a quella voce, costruire e completare una figura uscita dalla sua vita quando era poco più che neonato. Negli anni Enrico non ha mai indagato il motivo di questo abbandono, non ha mai voluto parlarne né tanto meno incontrare il padre. Ma un giorno, a venticinque anni, sente che ha trovato il modo di affrontare la sua storia: partire per un lungo viaggio solitario fino alla casa del padre, Saro, bussare alla sua porta e quando finalmente avviene l’incontro, sfuggito e desiderato per anni, riprendere ogni momento con la telecamera. 

Il film indaga l’anomalia biografica di un figlio cresciuto senza conoscere chi l’ha messo al mondo, ma anche la diferenza sostanziale tra l’essere genitore e l’essere padre
Non avevo riflettuto su questo aspetto prima di iniziare a girare, nonostante fossi una persona che poteva avere ben presente questa differenza. Nel mio caso è stata una differenza netta, da un lato ho avuto un genitore, mia madre, molto presente, dall’altro un padre sconosciuto. Due figure agli antipodi. Molte volte non è così, esistono forme più ambigue di mancanza che hanno a che fare con una non piena presa di responsabilità o con un’assenza che è psicologica e magari non fisica. Una presenza non presente che può creare più confusione ed essere anche più deleteria. Per questo credo che la mia decisione da bambino di non voler vedere mio padre, di sfuggire a quei pochi contatti che lui aveva cercato, per me è stata psicologicamente giusta.

Nella lettera in cui dà appuntamento a suo padre si firma “giocattolo poliglotta”. Questa ironia è una sorta di rivincita emotiva nei suoi confronti?
È una rivalsa non tanto contro di lui ma rispetto a quella che era stata la mia vita fino a quel momento. Una rivincita verso me stesso: ho voluto rendere pubblica una storia che avevo a lungo taciuto, ho filmato per superare un blocco psicologico e ho montato per rielaborare delle emozioni che avevo rifiutato in un primo momento. Nei suoi confronti non ho mai provato un sentimento negativo o la volontà di trasformare il film in uno schiaffo. Quella firma era piuttosto un tentativo di mettermi sul suo stesso livello di ironia, qualcosa che avevo percepito gli appartenesse.

Riprendere ogni singolo momento del vostro primo incontro con la telecamera è stato per lei più uno scudo o un’arma?
La telecamera è qualcosa di complesso. Nel momento in cui ho deciso di realizzare questo progetto non ho pensato fino in fondo cosa potesse significare. Da un lato può essere un’arma perché mette in suggestione l’interlocutore, dall’altro uno scudo che protegge, tiene le distanze e raffredda la tensione.

Filmare come atto terapeutico oltre che gesto creativo, insomma.
All’inizio avevo difficoltà a parlare con gli altri della mia storia, temevo di appesantirli con qualcosa che potessero percepire come drammatico. Poi, quasi per contrappasso, c’è stato un momento in cui veniva fuori di continuo in ogni mio discorso, ed è successo dopo aver realizzato il film che è stato, dunque, in qualche modo catartico.

Sullo sfondo un lungo viaggio in solitaria attraverso la Sicilia, l’isola d’origine della sua famiglia.
Il viaggio è durato un mese e mezzo, se non avessi avuto con me la telecamera forse avrei pensato troppo alla questione delle origini. Avevo una regola: girare ogni giorno qualcosa in tutti i posti che visitavo. Avevo da poco finito un corso con Daniele Segre che ci imponeva di lavorare tutti i giorni. Così inquadravo le chiese, il paesaggio. Ho circa cinquanta ore di girato.

Saro ha visto il film?
Non lo ha ancora visto, glielo porterò però a breve approfittando del fatto che in Sicilia è stata organizzata una proiezione del mio primo lungometraggio, Il terzo tempo. Ci torno dopo sette anni. 

Che idea si è fatto di quest’uomo? 
Ho elementi contrastanti su di lui, da un lato il racconto di un uomo a cui piaceva circondarsi di persone, dall’altro la forma di isolamento a cui ultimamente si è recluso. Dopo quell’incontro non abbiamo avuto più contatti, se non sporadici. Non mi ha mai ispirato antipatia, né ho mai voluto essere ricattatorio con lui, anche se sicuramente quest’idea di isolamento mi tiene a distanza, non mi ha messo nella condizione oggi di andarlo a cercare. 

Progetti futuri?
Sto scrivendo il mio secondo film di finzione, una storia ambientata in Messico e che parla di narcotraffico. Emotivamente è un film connesso a Saro, nel senso che parte dalla rielaborazione del ruolo di mia madre e del mio modo di crescere, che è il sentimento che mi ha lasciato questo documentario. Riparto da questo per il mio progetto futuro che sto sviluppando insieme alla Young Films, tra i comproduttori di Saro. L’abbiamo presentato l’anno scorso a Berlinale Talent e fa parte del Lab Film Garage, organizzato dalla scuola Holden con il patrocinio del Torino Film Lab, il cui prossimo appuntamento sarà durante il Noir in Fest.

Carmen Diotaiuti
23 Novembre 2016

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