Lou Castel, finalmente libero dal fantasma di Alessandro

L'attore è in concorso a Italiana.doc con il film di Pierpaolo De Sanctis A pugni chiusi, in cui ripercorre la sua vita nel corso di una lunga camminata per l'estrema periferia di Roma


TORINO – “Spero che questo premio sia una rinascita e non una sepoltura”. Così Lou Castel ha accolto lo Starlight Cinema International Award assegnato da una giuria di giornaliste e critiche, tutte donne, nell’ambito del 34° Torino Film Festival. L’attore è in concorso a Italiana.doc con il film di Pierpaolo De Sanctis A pugni chiusi, prodotto da Giampietro Preziosa e Marco S. Puccioni per InthelFilm e da Edvige Liotta. Una lunga e lenta camminata per l’estrema periferia di Roma, tra archeologia industriale, reperti antichi e suggestioni pasoliniane, in cui l’attore di origini svedesi parla a ruota libera della sua esperienza di vita, tra arte, ribellione politica e liberazione sessuale. Sospeso tra due personaggi diretti da Marco Bellocchio: l’Alessandro de I pugni in tasca (1965) e il Giovanni de Gli occhi, la bocca (1982) che l’hanno reso famoso ma anche intrappolato, Castel, al secolo Ulv Quarzéll, classe 1943, si rivela come mai prima d’ora. Attore per caso, perché avrebbe voluto essere regista, apolide per destino, nato a Bogotà da padre svedese e madre irlandese, cresciuto in Giamaica, a New York e a Stoccolma, si trasferì a Roma per frequentare il Centro Sperimentale dove fu scovato a Bellocchio. Lavorò con Liliana Cavani, con Salvatore Samperi, con Ettore Scola, fu militante maoista con Servire il Popolo e per questo venne clamorosamente espulso dall’Italia nel 1972. “A pugni chiusi – spiega il regista – è il risultato di un corteggiamento cominciato nel 2008, subito dopo il mio primo incontro. Un rapporto fatto di telefonate, viaggi a Parigi (dove Lou vive), scambi di email, proposte, tentativi abortiti, nuove soluzioni, grandi rifiuti (suoi), tenaci ostinazioni (mie). Sino al punto in cui, un passo alla volta ci siamo finalmente trovati ‘complici’, sperimentando un approccio nuovo e inaspettato al film che avevo in mente di fare: un metodo di ‘creazione diretta’, che ha trasformato lo spessore della recitazione da passato al presente”. 

Guardando retrospettivamente la sua carriera come la descriverebbe?

Ci sono stati tre periodi: prima del ’68 sono stato un attore artista, poi negli anni della contestazione un attore politico e quindi, quando sono andato a vivere in Francia, mi sono diviso tra varie attività di attore, pittore e scrittore. Adesso vedrò cosa posso fare nel futuro, vorrei tornare a recitare in Italia. Per il documentario ho ritrovato la fluidità della lingua italiana.

Durante la lavorazione del film ha scoperto qualcosa di se stesso?

Sì, alcune cose nascoste, è merito del linguaggio cinematografico. Normalmente il regista urla e comanda, qui l’attore poteva parlare, era un coautore.

Lei ha spesso contestato i registi e i produttori, rifiutando anche alcune proposte.

Rifiuti ce ne sono stati. Ma rifarei tutto uguale, non potrei fare altrimenti.

Perché inizialmente non voleva fare questo documentario?

Non volevo parlare del passato. Dopo un periodo rivoluzionario, se c’è stata una sconfitta, interviene una rimozione. Era difficile per me raccontare l’esperienza politica del passato. Ma ho cambiato idea quando ho capito che potevo agire come attore anziché raccontare.

Che rapporto ha con Roma?
E’ il pezzo più importante della mia vita, sono diventato attore lì. Sono sempre stato affascinato dal dialetto romano. Mia madre viveva lì. Ma poi è stato importante anche lasciare Roma, perché è una città che ti seppellisce. Quando sono tornato per il documentario ho trovato un’altra Roma.

Che rapporto ha con I pugni in tasca? Condivide il sentimento di amore/odio confessato in varie occasioni da Marco Bellocchio come verso un’opera diventata ineludibile nella sua storia, ma fin troppo invadente?
Bellocchio con I pugni in tasca ha fatto una scommessa ma poi è passato oltre come niente fosse. Non ha portato questo peso, se non nel fatto che gli altri glielo hanno sempre riproposto e credo che si sia lamentato di questo soltanto. A me invece quel film è rimasto addosso per quasi tutta la vita. È stato un condizionamento. Ma non è mai troppo tardi per liberarsi. Vivendo in Francia me ne sono alla fine liberato.

Nel documentario di Pierpaolo De Sanctis lei dice che i giovani italiani sono stati ribelli più a lungo rispetto ai propri coetanei europei.

In Italia il periodo rivoluzionario si è prolungato grazie alla tradizione storica del comunismo, intendo il comunismo extraparlamentare, l’Autonomia Operaia. La sconfitta di quel progetto politico per me è stata una delle più grandi tragedie. Dopo questa sconfitta si è persa l’identità, tutto è finito. E chissà se e quando tornerà una simile occasione.

A cosa attribuisce la sconfitta del movimento?

Ognuno la pensa come vuole, per me la causa è stato il settarismo. 

Che ricordo ha di Fassbinder con cui girò Attenzione alla puttana santa

Era un uomo molto dolce e spontaneo. Entrava in scena e recitava anche lui con leggerezza, umorismo e sarcasmo. Ero più rigido io di lui, perché io ero già un attore, mentre lui e i suoi stavano ancora cercando una strada. Era molto buffo, all’improvviso faceva le boccacce per spaventarmi. Io ero arrivato da Cosenza, dove facevo il militante, non pensavo più di tanto a quello che dovevo fare sul set. Ce l’avevo con i registi e recitavo contro. Ero antagonista al personaggio.

Cristiana Paternò
25 Novembre 2016

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