Danny Boyle: “T2, la paura di invecchiare degli uomini”

Il seguito del celebre film del 1996, alla Berlinale fuori concorso e in sala dal 23 febbraio con la Warner, ha dosi uguali di vitalismo e nostalgia


A un’occasione segue un tradimento, ma non tradisce i fans del primo Trainspotting il sequel confezionato da Danny Boyle che ripropone i quattro personaggi vent’anni dopo, proprio come nel seguito de I tre moschettieri. Ecco di nuovo Renton, Spud, Sick Boy e Begbie ormai costretti a fare i conti con l’età che avanza, famiglie sfasciate, il richiamo dell’eroina o delle altre droghe sempre dietro l’angolo, il Viagra e le coronarie che esplodono, l’endemico bisogno di denaro da rimediare in tutti i modi possibili, meglio se con il furto e la truffa, l’attrazione fatale per donne molto più giovani e non sempre benintenzionate.

Il film, in sala dal 23 febbraio con la Warner, ha dosi uguali di vitalismo e nostalgia. “La nostalgia c’è e riguarda tutti, anche il pubblico. I miei protagonisti se la sono spassata nella giovinezza, ora devono fare i conti con quello che sono diventati”, dice il regista di Manchester, a Roma per incontrare i giornalisti nella location molto alternativa delle ex caserme di via Guido Reni, enormi stanzoni con muri scrostati. T2, che sarà alla Berlinale tra pochi giorni, conferma il cast del 1996: Ewan McGregor, Robert Carlyle, Jonny Lee Miller e Ewen Bremner. “Già dieci anni fa – racconta ancora Boyle, premio Oscar per The Millionaire – era nata l’idea di fare un sequel dal secondo libro di Irvine Welsh, Porno, ma abbiamo aspettato di avere in mano una sceneggiatura più personale. Nel primo film i quattro protagonisti erano più disperati, oggi sono uomini di mezza età. Renton, ad esempio, ha crisi d’ansia. Nel mio caso invece sono sicuramente migliorato nella tecnica, ma non sono diventato un regista più bravo. I primi film sono sempre i migliori, perché hai la giusta inconsapevolezza”. E per quanto riguarda le dipendenze di oggi cita la paura di diventare vecchi. “Le donne sono più capaci di accettare il tempo che passa, forse perché mettono al mondo figli, gli uomini non ce la fanno”. 

Stesso cast di vent’anni fa e stesso regista. Squadra che vince non si cambia?

La Sony, quando abbiamo cominciato a lavorare al sequel, ha fatto una specie di sondaggio tra agli spettatori chiedendo a cosa non potevano rinunciare rispetto al primo Trainspotting. Tutti sono stati d’accordo su tre cose: che volevano il cast originale, che volevano Kelly Macdonald e una colonna sonora altrettanto forte, mentre nessuno ha chiesto di avere lo stesso regista…

A proposito di colonna sonora, come avete lavorato sulle musiche?

Abbiamo remixato alcune musiche del primo, per riportare alla memoria certe sensazioni ed emozioni, ma ci sono anche tanti pezzi nuovi.

Come avete lavorato sui flashback che richiamano il primo Trainspotting?
Nella sceneggiatura scritta con John Hodge ne era previsto solo uno, quando Spud fa boxe e viene messo a terra. Tutti gli altri flashback – che sono in totale un minuto – sono nati sul set dalle reminiscenze degli attori. Volevamo evitare di cadere troppo nella nostalgia. Però siamo andati a cercare le due gemelle che avevano interpretato la neonata morta nel primo film, sono diventate due splendide ragazze: le abbiamo invitate alla festa del film e si presentavano proprio così: “Salve, io sono la bambina morta”. Una cosa molto alla Trainspotting.

Come collaborate con lo scrittore Irvine Welsh?
Tra noi funziona tutto benissimo. John Hodge personalizza i suoi romanzi. Quando abbiamo cominciato a lavorare su Porno circa dieci anni fa, è venuto fuori un adattamento del romanzo che non era all’altezza di un sequel di Trainspotting. Volevamo qualcosa che avesse a che fare col passare del tempo, la difficoltà per i maschi di accettarlo. Dopo nove o dieci anni da Trainspotting non c’era molto da dire, avremmo fatto solo una replica, era troppo presto. Così abbiamo aspettato più a lungo, ci siamo presi un rischio di non riuscire mai a realizzare il seguito. Vent’anni dopo tutto è un po’ più complicato, come dice Renton: “Ho 46 anni e mi sento finito”. Tutti noi ci sentiamo così. Questo è il centro del film. Anche la tirata su “scegli la vita”, che è uno dei marchi di fabbrica del film, ha un altro sapore, meno politico, più personale.

Come si sono evoluti o involuti i quattro personaggi?
Paradossalmente il personaggio che si evolve di più è Spud, che è il più disperato di tutti, ma impara a dare valore a se stesso, scopre di avere un talento per la narrazione e la scrittura. Anche Begbie si fa un esame di coscienza e impara a chiedere scusa al figlio e alla moglie. Renton abbraccia finalmente suo padre ed è la sua maniera di scusarsi per essere stato lontano per vent’anni, senza neanche andare al funerale di sua madre.

Il tradimento, tema ricorrente in Trainspotting, ha anche un valore positivo?

E’ un atto di individualismo contro il gruppo. Ma è una cosa che succede a tutti noi. Anche io ho tradito Ewan McGregor e il mio produttore ha tradito me. Ma quando ci siamo ritrovati sul set è stato meraviglioso.

Farete il prequel di Trainspotting

Si farà una serie tv da Skagboys, il romanzo di Irvine Welsh del 2012, ma non saremo noi a farlo.

In T2 c’è qualche riferimento al mutato scenario nel Regno Unito e persino alla Brexit, ma molto vago.

Questi non sono film politici, non c’è realismo, siamo dentro una bolla. Trainspotting non è un film di Ken Loach. Certo, la realtà contemporanea ha un effetto su quello che raccontiamo, ma la disillusione dei personaggi, di Renton in particolare, non è legata alla realtà sociale, ma all’età, alle cose che non ha fatto, che non ha realizzato, alla sua mascolinità. Nel primo film questi quattro erano giovani e spavaldi, oggi le cose sono molto più complicate.

Cristiana Paternò
31 Gennaio 2017

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