Gabriele Lavia: “Il teatro sopravviverà al cinema”

Gabriele Lavia si racconta con sincerità, a partire dall’infanzia. Il rapporto con il cinema e l’eterno amore per il teatro, il lavoro con Dario Argento e Tornatore, la sua esperienza di regista


Gabriele Lavia si racconta, dall’infanzia, nella sua storia con il cinema e nell’eterno amore per il teatro. In questi giorni lo vedremo in scena con L’uomo dal fiore in bocca… e non solo, dall’ 8 al 19 febbraio al Teatro Franco Parenti di Milano.


Ha ricordo del suo “primo incontro” con il cinema? Cosa crede di avere, di lì in avanti, portato con sé?
Ero bambino, era il dopoguerra, a Catania. Mi ricordo un film con Charlie Chaplin e uno con Stanlio e Olio, con i miei fratelli ne cantavamo poi le canzoni, semplicissimi capolavori musicali. Sicuramente ho portato con me una passione, quella per il cinema western, però quello di quando ancora gli indiani erano cattivi, fino al ’68, dopo sono diventati buoni e i cattivi erano i cowboy, lì il western ha cominciato a finire. Probabilmente era giusto che fossero cattivi coloro che andavano a distruggere le popolazioni native, però la Storia è andata che adesso abbiamo Donald Trump, che secondo me incarna proprio lo spirito americano.

E il “primo incontro” con il teatro? Lo ricordo perfettamente, avevo tre anni. Noi abitavamo a Catania, una città distrutta dai bombardamenti, dagli americani per preparare lo sbarco per la liberazione dell’Italia. Un giorno, mio padre annunciò che saremmo andati a Palermo a vedere Cyrano de Bergerac con Gino Cervi. Ci diede un libro del Cyrano, con delle magnifiche illustrazioni, così mio fratello più grande ce lo leggeva, come mia madre, mio padre, la nonna, per prepararci a questo grande evento. Mi piaceva e aspettavo quel giorno, lo aspettavo, lo aspettavo: ricordo ancora oggi a memoria dei pezzi del Cyrano de Bergerac, da allora. Dopo qualche mese – mio padre preparava le avventure familiari con molto anticipo – arrivò quel giorno: pigliammo uno scassato aereo bimotore, perché le linee ferroviarie erano state bombardate, era domenica. Al pomeriggio, finalmente, andammo al Teatro Biondo, mio padre aveva preso un palco accanto a quello reale. Si spensero le luci e si aprì il sipario: fu grande la mia delusione. Il palcoscenico mi sembrava un rettangolo piccolissimo e lontanissimo. Gli attori erano piccolissimi e bruttissimi, niente era come le illustrazioni del libro, che era mooolto più bello. Io non ce la facevo e mia madre mi diceva di non fare i capricci, altrimenti non mi ci avrebbe riportato: questa per me era una grande gioia, non mi avrebbero più portato a rompermi i coglioni! Finalmente finisce questa tortura, mio padre ci porta nei camerini, bussa, apre un signore con una vestaglia rossa: mio padre era molto cerimonioso, saluta e ci presenta ‘il grande Gino Cervi’. Lui si china su di noi, ci dà un buffetto e la mano chiude la porta.

La sua visione del cinema e del teatro. Il teatro è una cosa molto, molto, molto difficile, perché il teatro è ‘originario’ e l’origine è difficile. Ogni volta che noi apriamo, o chiudiamo, o siamo sul palcoscenico, ripetiamo un gesto che ha le sue origini nel VI, forse VIII, forse X secolo a.C. mentre il cinema è più facile, perché più recente. Sul fatto dell’eternità del cinema nutro seri dubbi, mentre su quella del teatro non ne ho, perché il teatro non ha nulla di tecnico. È vero che oggi in teatro gli attori e i registi mediocri usano le tecnologie, fanno lo spettacolo cosiddetto multimediale, tutte sciocchezze che non hanno nulla a che fare col teatro. È come se proiettassimo un film e ad un certo punto, per farlo un po’ diverso, degli attori recitassero davanti allo schermo. Sono baggianate. Un conto è la persona fisica nella sua realtà, un conto è il fantasma di una proiezione. Un fantasma è di certo più ‘maraviglioso’ della realtà del reale, ma non è il reale. Quindi il cinema ha una forza ma, proprio perché ha una grande forza, verrà sconfitto sempre da qualcosa che è più fantasmatico ancora. Per cui il cinema è destinato, per statuto, a finire, perché è un’innovazione tecnica. Già è entrato in crisi quando arrivò la televisione: io ero bambino e c’erano cinema che avevano 2500 posti, adesso ci sono i cinema che ne hanno 25. Questo ci racconta parecchio. Ammesso esista quell’attore che quando è in scena riesce a stabilire con il pubblico un rapporto erotico, in senso greco, di co-appartenenza, quello è qualcosa che non può morire, mentre il fantasma ti stupisce le prime volte ma poi può abituare.


L’esordio sul grande schermo fu con Damiano Damiani nel ’72: Girolimoni il mostro di Roma, con Nino Manfredi. Come ricorda la sua prima volta davanti alla macchina da presa? Damiani era un grande regista e un vero, grande, pittore di talento e peraltro veniva dal teatro: aveva disegnato i manifesti per gli spettacoli di Strehler, che da poco aveva fondato, con Paolo Grassi, il Piccolo Teatro di Milano. Damiano mi fa un provino e mi prende. Il produttore era Dino De Laurentiis ed era, forse, l’ultimo film prima di andare in America: non ricordo come e chi, ma fui avvicinato, mi offrirono un contratto di 12 anni per andare anch’io in America. Io volevo fare il teatro ma chiesi: ‘ e che parti faccio io, in America?’. Lui risposte: ‘’a Gabrié, nun so manco se io farò er cinema, tu che parti fai? A coso…’.


Negli anni ‘70 e ‘80 partecipa a pellicole horror di culto: Profondo Rosso (1975) e Inferno (1980) di Dario Argento – con cui poi farà Non ho sonno (2001) – e Zeder (1983) di Pupi Avati. C’è un motivo dietro alla sua presenza in film di genere, oppure fu assolutamente casuale? Credo fu casuale. Non so perché mi chiamò Dario, per caso. Succedeva che ci incontravamo per strada e mi chiedeva: ‘scusa, faresti, per favore, una cosetta…?’. Le cose con Dario Argento sono sempre accadute in questo modo: per Non ho sonno, del periodo in cui ero direttore dello Stabile di Torino, che io scendo le scale del teatro e lui sale. Mi dice che stava preparando un film, di cui io non sapevo, e aveva affittato lì un appartamento per la produzione, ci salutiamo, rimanendo di vederci per un caffè. Scendo le scale, lui arriva in cima e mi chiama: ‘Scusa… ti spiace farmi una parte? Ti prego… – io dico che stavo recitando – non ti preoccupare, organizzo le pose e vedrai che potrai fare tutto’. Pupi invece mi chiamò. Era un periodo di mio successo molto grande a teatro, un momento in cui piacevo ai ragazzi, vedevano nel teatro che facevo una cosa che aveva forza, passione, che raccontava le storie invece di nasconderle dietro curve intellettuali. Zeder era un film che apparteneva a un filone, con occhio esterno mi accorgevo che Pupi stava come cercando una sua misura, che poi ha trovato in una dimensione differente. Ma questo suo amore per l’horror aveva il lato poetico di essere un horror di provincia, con l’odore del cibo emiliano. In questo senso, in quel genere, lui ha lasciato un segno. Una volta ero in America – poi successe di nuovo in Giappone, a Tokyo – e uno spettatore mi portò, da autografare, una copia di Zeder: probabilmente ebbe più successo in Giappone che in Italia.


Oltre a Dario Argento, un regista ricorrente è stato Giuseppe Tornatore, che l’ha diretto in La leggenda del pianista sull’oceano (1998) e Baarìa (2009). Che esperienze sono state?
Tornatore è siciliano, quindi c’è una comunanza. Lui è un artista. Mi ricordo quando vidi il suo primo film, Il camorrista (1986) e mi dissi: ‘beh… questo è uno (artista) vero…’. In quel film cercava anche lui le sue misure, Tornatore è un grande regista.


La regia cinematografica la riguarda anche direttamente: nel 1983 dirige Il principe di Homburg, Nastro d’Argento come Miglior regista esordiente. Cosa la portò dietro alla macchina da presa?  Fu casuale. Io stavo facendo in teatro Il principe di Homburg: venne un produttore cinematografico e mi disse che voleva farlo al cinema, così com’era, come spettacolo teatrale fatto al cinema. Il caso volle che, a seguito dell’incendio in un teatro, vennero fuori nuove regole di sicurezza, così quando dovevamo girare – in teatro – il film dello spettacolo, il teatro dovette chiudere per ristrutturazione e adeguamento alle norme di sicurezza. Allora il produttore disse che l’avremmo fatto vero: ‘erano cazzi’, ma a lui non importava, era sicuro, anche se il film così sarebbe costato un mucchio di soldi. Si lavora con grande rigore, tutto quello che c’era era l’eccellenza. Io convinco la direttrice della Reggia di Caserta a farci girare lì. Due giorni dopo l’inizio delle riprese, il produttore scomparve. Rimaniamo tutti, con pochissima pellicola: siamo anche scappati letteralmente dall’albergo, gettando dalla finestra le valigie. Il film non è nulla in confronto alla storia del film! Abbiamo montato, doppiato e mixato, in uno stabilimento in cui facevano film pornografici: era magnifico uscire dalla moviola e vedere uomini nudi in erezione, femmine procaci, Fellini sarebbe impazzito…


Ha prestato la sua voce per alcuni doppiaggi cinematografici, in V per Vendetta (2005), Il diavolo veste Prada (2006) e Wilde Salomé (2011). Qual è il suo rapporto con questo particolare uso della voce? Succede perché qualche vecchio amico mi chiama, mi chiede se posso, e io posso il lunedì di solito: V per Vendetta l’ho fatto un lunedì di riposo, anche Il diavolo veste Prada.

Il cinema fa parte della sua storia, ma è soprattutto il teatro ad averla consacrata come maestro: il suo nuovo spettacolo è L’uomo dal fiore in bocca… e non solo. Ci racconta il ritorno a Pirandello, dopo Sei personaggi in cerca d’autore?

L’uomo dal fiore in bocca nasce da una novella che Pirandello intitolò Caffè notturno, che diede all’amico Ruggero Ruggeri, cambiando il titolo. Una piccola novella che durava un quarto d’ora, ma Pirandello sapeva che lì c’era il suo capolavoro. Racconta l’insopportabile condizione della vita umana, che contiene in sé anche la morte.


Lei qui “collabora” con Pirandello, con l’inserto di altre novelle che affrontano il tema della donna e della morte. Come è avvenuto questo suo intervento nell’opera pirandelliana? Poiché questo atto unico è molto breve, ho pensato di ‘intercalarlo’ con altri pezzi di novelle che avessero come tema il rapporto dell’uomo con la morte e con la donna, in cui morte-donna per Pirandello è un rapporto inscindibile, così è venuto fuori questo spettacolo. L’ho intitolato ironicamente “…e non solo”, perché è quel ‘non solo’ che, come consistenza dà maggiore grandezza. Ho pensato di fare uno spettacolo che contenesse come tema L’uomo dal fiore in bocca, ma che avesse una misura più lunga – quasi un’ora e mezza. Sono un buon conoscitore delle novelle di Pirandello, quindi non mi è stato difficile prendere un pezzo da qui, un pezzo da lì. I funerali, le donne, tutto Pirandello è pieno, sempre con una grande ironia, a volte comicità tragica, che non mi dispiaceva mettere in questo tema così amaro, così tragico.

Questo è uno spettacolo teatrale in cui non mancano suggestioni cinematografiche. 

È uno spettacolo da un punto di vista tecnico molto complicato. In genere L’uomo dal fiore in bocca lo fanno con un tavolino, due sedie e un attore che ‘caca perle’, cosa che io non volevo, e allora l’ho pensato molto complesso: la colonna sonora diventa paradossalmente la protagonista. Piove, piove sul palcoscenico, in platea, passano i treni, ma è tutto finto, sono solo suoni. L’unica cosa vera, in tutta questa architettura di finzione, è, dopo l’uscita dei personaggi dalla stazione, il rientro di loro bagnati fradici. Tutto quello che afferisce al corpo dell’attore è reale, mentre quello che afferisce all’udito non è reale, appartiene al mondo fatasmatico e questa strana commistione, alla fine, crea uno strano contrasto, che credo abbia una sua forza sul palcoscenico.

Nicole Bianchi
06 Febbraio 2017

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