Reinhold Messner: “Still Alive, con il cinema racconto l’alpinismo estremo”

Al Festival di Trento il celebre scalatore ha portato la sua prima regia, Still Alive - dramma sul Monte Kenya in cui Oswald Oelz e Gert Judmaier raccontano un'avventura che poteva portarli alla morte


TRENTO – La montagna e il cinema: un rapporto molto intenso che dura fin dagli albori della settima arte e che da 65 edizioni è al centro del Trento Film Festival, manifestazione in crescita che attira sempre più spettatori fedeli. Particolarmente affollati sono stati gli incontri con una celebrità alpina come Reinhold Messner, che ha pensato bene di affrontare una nuova sfida esordendo alla regia con Still Alive – dramma sul Monte Kenya, una produzione austriaca che è stata presentata a Trento come evento speciale. Un docudramma in cui due anziani, Oswald Oelz e Gert Judmaier, raccontano della loro scalata del Monte Kenya da giovani alpinisti, della caduta che ha provocato la rottura della gamba di uno di loro e dell’infinita attesa dei soccorsi durata nove giorni. Una storia appassionante, come racconta Messner in questa intervista a Cinecittà News.

“Non è una tragedia, ma certamente una situazione drammatica, che mi riporta al 1970, quando ero ricoverato in una clinica di Innsbruck, con i piedi congelati, appena tornato da una spedizione nel Nanga Parbat, distrutto anche moralmente dalla perdita in montagna di mio fratello. Un giorno aggiungono un letto alla mia stanza singola per accogliere un altro alpinista, Gert Judmaier, che mi ha raccontato la sua storia, insieme al suo amico Oswald Oelz, che lo ha raggiunto qualche giorno dopo. Con lui sono diventato molto amico e ho condiviso molte missioni alpinistiche; da anni gli dicevo che avremmo dovuto raccontare la storia del loro miracoloso salvataggio. Ora sono riuscito a trovare una casa di produzione a cui ho detto: non voglio soldi, vengo solo se mi fate fare il regista, ho scritto un trattamento, non una vera sceneggiatura, perché in un film in alta montagna non si può prescindere dalle condizioni meteo. Se un giorno arriva la nebbia devi cambiare continuamente nella tua testa il film, sapere cosa fare dopo. Solo chi conosce la montagna molto bene può farlo”.

Quindi per lei è arrivato l’esordio alla regia a 72 anni.

Non mi vedo come regista, ma come storyteller. Il cinema è la forma più complessa per raccontare delle storie, nel mio caso quelle che conosco, le vicende in cui l’uomo si confronta con la grande natura selvaggia.

Un regista che si occupa di storie così estreme è Werner Herzog, con cui ha lavorato. L’ha ispirata in qualche modo?

È geniale, ma il problema è che lui non è un avventuriero, ma vorrebbe esserlo. Quando ci ha seguito nella scalata del Gasherbrum per il suo documentario e a mezzanotte siamo partiti per l’ultima parte, lui voleva venire con noi. ‘Sei matto’, gli ho detto, non fai neanche cento metri e finisci in un crepaccio.

Poi ha avuto una prima esperienza cinematografica, ha scritto il soggetto di Grido di pietra, un film che ha diretto Herzog, con Donald Sutherland e Vittorio Mezzogiorno. Com’è andata?

Ci siamo visti, abbiamo discusso per due, tre ore e poi pensato fosse meglio andare ognuno per la propria strada. Non è un film riuscito bene, Herzog vuole essere l’eroe invece che pensare al film, dimostrare di essere il più coraggioso. Gli attori erano fuori parte, anche uno molto bravo come Vittorio Mezzogiorno.

È vero che ha incontrato anche Clint Eastwood?
Sì, durante una scalata nel 1975 del Monte Eiger, in Svizzera. Tornando il pomeriggio in albergo, dopo essere ridiscesi dalla vetta, abbiamo saputo che stava girando lì un suo film, Assassinio sull’Eiger. C’erano vari problemi, dopo ci hanno detto che aveva imposto a tutta la troupe di guardarci da lontano mentre salivamo la parete per capire come funzionava nella realtà l’alpinismo. Ci hanno invitato a raggiungerli a cena e abbiamo passato una bellissima serata. Tra l’altro sono anni che discuto con un produttore di Hollywood di una bella storia di un anziano ufficiale inglese che fugge in Nepal. Non credo che potrei girarla io, ma lui sarebbe perfetto per il ruolo.

Still Alive è anche una storia d’amicizia.

I due protagonisti raccontano in maniera totalmente sincera quello che sentono. Alla fine uno dei due dice che sperava di essere buttato giù, perché non sopportava più né il dolore né la consapevolezza che per la sua gamba rotta sarebbero potuti morire tutti. L’altro dice che non poteva lasciare solo il compagno infortunato, ma che se fosse morto sarebbe stato più felice perché avrebbe aumentato le possibilità di sopravvivenza. Sono cose sincere e brutali, io dall’inizio non ho voluto dirgli nulla, se non di aprirsi e ricordare. Sono loro che raccontano e i giovani alpinisti mi aiutano a far capire a un ampio pubblico cosa hanno vissuto.

Lei ha scalato montagne in ogni continente, le famose Seven Summits. Quando si arriva lì in cima, in condizioni così estreme, cosa cambia?

Innanzitutto la pressione dell’aria, specialmente l’esposizione alla natura estrema, che è la cosa più importante. L’impossibilità di essere aiutati in caso d’emergenza. Oggi non è più così, ma una volta andavamo sull’Himalaya per tre mesi e nessuno sapeva dove fossimo, non c’erano i telefonini con il gps, non si potevano conoscere le previsioni del tempo. Girando in Kenya, invece, avevamo questi mezzi e quindi ogni giorno decidevo in base al tempo cosa avremmo fatto il giorno dopo.

Per lei è stato naturale il passaggio dall’alpinismo, un’esperienza molto solitaria, ai musei montani che ha aperto in giro per l’Alto Adige, un modo per condividere?

È stata la mia fortuna. È morto pochi giorni fa Ueli Steck, uno dei più grandi alpinisti degli ultimi anni, che non ha avuto questa fortuna di poter uscire da un’attività entrando in un’altra. Io a 25 sono stato costretto a lasciare la roccia estrema, perché avevo parzialmente perso le dita dei piedi, e sono diventato uno specialista dell’alta quota. All’età di Steck avevo fatto tutti gli ottomila metri e molte altre cime in giro per il mondo ed era chiaro per me che non potevo più esprimermi in quella forma di alpinismo. Ho deciso liberamente di intraprendere un’altra attività, l’attraversamento di luoghi estremi, per cui non serve la prontezza di reagire quando perdi l’appiglio; non serve la grande forza di un giovane alpinista che si tira su con un dito, ma la capacità di soffrire, di stare al freddo per mesi. Ho sfruttato nel momento giusto della vita la mia capacità di esprimermi in un’altra forma. Poi ho fatto degli studi sulle montagne sacre, a 60 anni l’ultima avventura in cui a causa di un errore potevo morire, poi da invalido dopo una rottura alla caviglia ho anche fatto politica come deputato europeo a Bruxelles per cinque anni. Quindi ho iniziato a raccontare la montagna in un museo, dopo i libri e le conferenze; raccontare le mie storie, le mie emozioni, quello che avevo imparato in giro per il mondo, ha sempre fatto parte del mio modo d’intendere l’alpinismo. Ora ho deciso di dedicarmi al cinema, ho imparato un mio sistema con cui farlo e ora sto preparando per maggio il mio secondo film, in cui voglio sempre più responsabilità. In Still Alive ho solo preso il racconto dei miei amici inserendolo in una drammaturgia, poi ho curato la regia, ma non ho potuto fare il montaggio. Mi sono però concesso il diritto di un director’s cut, che è quello che è stato presentato qui a Trento. Nel prossimo mi occuperò anche del montaggio. Alla fine vorrei avere il coraggio di produrre, ho creato una società appositamente. È molto rischioso, non perdi la pelle, ma tutto quello che hai investito.

Consiglia ai giovani, a partire dai suoi figli, di iniziare a fare alpinismo, considerando la dose di incoscienza necessaria e i rischi?
Non faccio propaganda per l’alpinismo, non posso farlo. Le tragedie succedono, sono contento che ora con la morte di Steck si riapra la discussione sul fatto che si possa o meno fare alpinismo estremo. Lui era libero di farlo, nessuno l’ha frenato, come mia madre non ha frenato me e mio fratello, per darci la possibilità di esprimerci. Facendolo sono diventato quello che sono oggi, ma se avessi fatto altre scelte magari sarei migliore, non lo so. Non posso dire che l’alpinismo estremo sia positivo o negativo, ma è pericoloso.Quello che non accetto più è che i giovani dicano che è meno pericoloso di andare in macchina; metà degli alpinisti di punta degli ultimi cento anni sono morti in montagna.

Lei ha fatto molte battaglie per il rispetto della montagna, crede si siano fatti passi avanti per rendere l’alpinismo più in armonia con la natura?

È cambiato tantissimo negli ultimi anni, è ormai globale. l’alpinismo su roccia è sempre più uno sport, diventerà addirittura olimpico su pareti artificiali. È bellissimo, ma non è l’alpinismo, che è la tensione fra l’uomo e la montagna, non uno sport misurabile.

Mauro Donzelli
02 Maggio 2017

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