Federico Francioni, viaggio nella generazione post Tienanmen

In concorso alla 53ma Mostra Internazionale di Pesaro The First Shot, girato a quattro mani da un regista italiano e da uno cinese con un iPhone e un microbudget


PESARO – Insieme a Yan Cheng, Federico Francioni ha realizzato l’unico film italiano del concorso di Pesaro 53, The First Shot. Uno cinese e l’altro molisano, i due registi hanno lavorato in totale autonomia, scrivendo, producendo, girando, registrando il suono e montando questi tre ritratti di giovani nati dopo il 1989, data che gli autori considerano come la fine di tutte le rivoluzioni con la repressione di Piazza Tienanmen. Il film, girato con una videocamera e un iPhone, tenta di entrare in contatto con la vita interiore dei tre giovanissimi protagonisti, due ragazzi e una ragazza, lasciando che sia il flusso dell’esistenza a parlare per loro, mentre i riferimenti alla storia politica della Cina sono una cornice entro cui incasellare un presente alienato, in cui sembra davvero difficile, se non impossibile, trovare un proprio posto nella vita. Il Paese si trasforma, la modernizzazione è in agguato in ogni gesto, la Cina ne emerge come un enorme cantiere a cielo aperto totalmente disumanizzato. A Pesaro, dove l’anno scorso aveva portato in Satellite il suo precedente lavoro, Tomba del tuffatore, premiato poi a Bellaria, abbiamo incontrato il ventinovenne Federico Francioni. 

Come è nata la collaborazione con Yan Cheng?
Ci siamo incontrati al Centro Sperimentale di Cinematografia, nella sede de L’Aquila. Yan Cheng è nato in Cina nel ’91, ha studiato storia e antropologia negli Stati Uniti, attraversando l’America in bici. Poi si è trasferito a Milano e quindi a L’Aquila, così si è trovato in una città terremotata. Abbiamo girato il primo film insieme per caso, stimolati dai docenti.

Continuerete a lavorare insieme?
Oggi Cheng è tornato in Cina, io, dopo il diploma al CSC, ho frequentato gli Atelier Varan a Parigi dove sto lavorando a un nuovo documentario. I nostri percorsi si sono divisi per ora, ma la nostra collaborazione ha funzionato e potremmo riproporla.

Cosa vi ha portato di positivo questa collaborazione?
Ci ha imposto di porre al centro un tema e di mettere da parte l’ego. Tomba del tuffatore era una sinfonia visiva, questo nuovo lavoro, The First Shot, è ancora più ancorato alla realtà. Parte dal desiderio di Cheng, che era tornato a casa per il Capodanno cinese, di raccontare i suoi amici. Aveva sentito la loro angoscia e voleva mostrare uno spaesamento più vasto.

Come avete scelto i tre protagonisti?
Sono tre persone molto diverse, che non si conoscevano e che vengono da ambienti differenti. Uno di loro vive a Pechino tra artisti e lavoratori occasionali, l’altro a Wuhan, nella Cina centrale, in una città di cantieri, la ragazza studia moda a Londra e le abbiamo proposto di tornare dai suoi nonni per incontrarli dopo molto tempo. E’ stato un momento molto intenso e anche difficile per lei.  

La Storia emerge solo sullo sfondo di una narrazione che mette al centro la vita quotidiana anche nella banalità dei suoi gesti.

Il racconto intimo si fa contenitore della Storia compresa tra due date simbolo, il 1911 e il 1989. Il 10 ottobre del 1911 vi fu una sollevazione di contadini che diede inizio alla Rivolta di Wuchang, da cui nacque la Repubblica cinese con la caduta dell’Impero. Il primo colpo di fucile è quello. Il 1911 innesca uno sconvolgimento che porta progresso e rinnovamento, il 1989 viceversa chiude un’epoca. I carri armati hanno fermato tutto, si è affermata la tecnocrazia, il capitalismo violento.

Questi ragazzi sembrano a disagio ovunque, non trovano pace.
Uno di loro è stato in Canada ma racconta di non poter vivere laggiù perché tutto è troppo lento e stabile, lui è troppo abituato al cambiamento, un palazzo dopo tre anni è vecchio e obsoleto. La ragazza è la più proiettata verso il futuro e l’Occidente. Ma questo comporta anche che non è tornata a casa quando è morto uno dei suoi nonni, i suoi genitori neppure glielo hanno detto. Quando le dicono questa cosa è un momento molto forte.

Avete manipolato e messo in scena la realtà?
Non abbiamo messo in scena niente. Volevamo cogliere segnali autentici di spaesamento, quindi nessuna manipolazione.

Avete dei punti di riferimento cinematografici?
Siamo cinefili ma non avevano riferimenti precisi in questo lavoro, giriamo in modo istintuale. Un modello per noi è Chantal Akerman, la regista belga morta mentre stavano montando il film a cui infatti l’abbiamo dedicato: in particolare amiamo il suo lavoro su Jeanne Dielman in cui coglie il tempo e lo spazio intimo. Ammiriamo Pedro Costa e in Italia Pietro Marcello e Michelangelo Frammartino, per il lavoro sul documentario creativo.

Gianfranco Rosi vi ha influenzati?
Poco. Sacro GRA ha una pretesa di oggettività che non ci appartiene. Il cineasta si pone come invisibile ma non lo è.

The First Shot è prodotto dal Centro Sperimentale.
Il nostro corso di cinema a L’Aquila ci ha finanziato con 5.000 euro. Ma da quando quel corso è stato abolito, i nostri film per il CSC non esistono più. Non hanno il formato classico, del corto narrativo di 15′ adatto a partecipare a sezioni come Cinéfondation a Cannes.

Il suo prossimo film sarà girato in Francia.

Lì si respira un altro clima. Sto seguendo un fratello e una sorella, sono tunisini siciliani, musulmani, di 19 e 20 anni, vivono nella banlieue. Lui fa l’autista di Huber e gira Parigi di notte, lei lavora al computer. In loro ho trovato un intreccio di contraddizioni e segni forti del mondo contemporaneo e delle sue tensioni, compresi echi del conflitto. Mi piacerebbe anche passare alla finzione, per ora sto scrivendo un soggetto. 

Cristiana Paternò
22 Giugno 2017

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