Jean-Stéphane Sauvaire: “Nelle viscere della violenza”

Uscirà in sala con Lucky Red A Prayer Before Dawn, ispirato alla storia vera di un inglese incarcerato in Thailandia e salvato dalla boxe


Una discesa agli inferi nella violenza del carcere thailandese, è A Prayer Before Dawn, storia vera di un giovane pugile inglese incarcerato a Bangkok per detenzione di droga e possesso di armi. Senza capire una parola della lingua locale, finisce dentro uno stanzone promiscuo dove un centinaio di detenuti convive notte e giorno, tra pestaggi, sodomia, omicidi efferati, riti di iniziazione. Ma Billy Moore trova il suo modo di sopravvivere. E’ un pugile e avrà il permesso di partecipare ai tornei carcerari di Muay-Thai, la boxe thailandese. Tra ricadute nella dipendenza dalle metanfetamine e dall’eroina e una love story con una giovane trans, che si trova in carcere per aver ucciso suo padre, Billy impara dalla disciplina sportiva – che è anche pratica spirituale come in tutte le arti marziali – a tenere a bada il suo lato autodistruttivo che affonda le radici in un’infanzia difficile a Liverpool. Tratto dal romanzo autobiografico di Billy Moore, “A Prayer Before Dawn: A Nightmare in Thailand”, il film, che sarà distribuito in Italia da Lucky Red, si discosta dai classici del genere carcerario, primo fra tutti Fuga di mezzanotte, per il taglio quasi documentaristico. Gli interpreti, infatti, a parte il protagonista Joe Cole e l’attore che interpreta il direttore del penitenziario, sono tutti non professionisti. Alla Festa abbiamo incontrato il regista Jean-Stéphane Sauvaire, francese, già autore di Johnny Mad Dog, sulle vicende di un gruppo di bambini soldato durante la guerra civile in Africa. 

A Prayer Before Dawn è un film molto violento, ai limiti del tollerabile.
Quando ti occupi di certi argomenti, devi essere duro per forza. Io volevo che lo spettatore si sentisse come si è sentito Billy a vivere in prigione, a combattere sul ring, quando assume droga, quando si trova in mezzo a persone che non capisce, di cui non parla la lingua e di cui non conosce i rituali. Il film è tutto vissuto in prima persona. Sul tema della violenza mi sono sempre interrogato: il mio primo lungometraggio, Johnny Mad Dog, è un film di guerra con dei bambini come protagonisti, quindi il tema è ancora più delicato. Per me è stato importante mostrare il processo che ci porta a capire che la violenza non è la soluzione. Qui mostro come Billy si liberi dalla violenza attraverso un lungo e doloroso processo.

Sembra quasi che ci sia un percorso dallo stato di natura, la guerra di tutti contro tutti, l’homo homini lupus, alla disciplina della boxe, sempre violenta ma con delle regole.
Mi interessava approfondire i diversi tipi di violenza: c’è la rabbia animale, la lotta di tutti contro tutti, il caos, poi c’è la violenza dell’istituzione, della polizia e dei carcerieri, i divieti che possono ricordare i divieti dell’infanzia, perché Billy veniva picchiato da suo padre ed è un uomo traumatizzato. Ironia della sorte, proprio in prigione, trova la sua libertà. Man mano quelli che lo circondano diventano più gentili, più umani, diventano la sua famiglia. Billy passa dalla cella governata dalle bande a quella dei pugili dove gode di certi privilegi. E’ un passaggio dal caos e dalla brutalità alla spiritualità perché la boxe thailandese non è solo uno sport, ma è appunto una forma di spiritualità.

C’è questa scena sorprendente, quando Billy ha la possibilità di evadere ma torna indietro.

Mi sono molto interrogato su questo. Come si fa a credere in un film che uno torni di propria iniziativa in prigione? Va contro tutte le regole del genere carcerario. Ma è successo davvero. Ho chiesto spiegazioni allo stesso William Moore e lui mi ha spiegato che mentre camminava per la strada pensava a cosa avrebbe potuto fare. Vado in Cambogia? Come tolgo le catene che ho ai piedi? Alla fine decide di tornare indietro e accettare se stesso e la sua condanna. In prigione ha trovato delle persone che lo capiscono, cosa che non aveva avuto durante l’infanzia.

Come è stato il rapporto con Moore?
Quando ho deciso di fare un film dal suo libro, sono andato a Liverpool a incontrarlo e ho trascorso qualche giorno con lui e la sua famiglia. È un essere umano straordinario, un duro ma anche vulnerabile e sensibile, pieno di contraddizioni. Per me era un’evoluzione del personaggio di Johnny Mad Dog, un passaggio dall’infanzia all’età adulta. Billy ha usato la boxe come terapia. In entrambi i casi bisognava sopravvivere a un trauma.

In che modo Moore è stato coinvolto nel film?

Ci siamo consultati molto con lui scrivendo la sceneggiatura. Con lo sceneggiatore Johnny Hirschbein gli abbiamo telefonato spesso quando avevamo dei dubbi sui suoi sentimenti. Ci ha lasciato totale libertà ma si è anche raccontato. In seguito ha incontrato Joe Cole e hanno passato molto tempo insieme a Liverpool. Billy non può venire in Thailandia perché è un indesiderato non avendo terminato la sua pena lì ma in un carcere inglese.

Che contributo hanno portato al film gli attori non professionisti, che credo siano ex carcerati?

Un grande contributo di autenticità. Io non sono mai stato in prigione in Thailandia e volevo sapere da loro tantissime cose. Abbiamo lavorato insieme improvvisando: per esempio cosa succede quando arriva un nuovo detenuto in cella? Forse perché sono stati a lungo in galera ma hanno molta immaginazione e hanno condiviso con me tantissimi racconti. Ci sono tanti straordinari film carcerari, come si fa a fare qualcosa di nuovo e di diverso? La mia sfida era essere autentico.

I corpi di questi attori, coperti di tatuaggi, sono sempre in primo piano nel film.

I loro corpi sono il film perché ciascuno di loro riflette la propria vita nel suo corpo, con i tatuaggi, i muscoli allenati dei pugili, l’ambiguità sessuale delle lady boys, le cicatrici come quella del bambino pugile. Tutti i personaggi indossano una uniforme o hanno un corpo espressivo.

Ha rivisto qualche film di genere carcerario per trovare ispirazione?

Come dicevo, la mia ispirazione viene dalla realtà, dalle storie degli esseri umani, se ti lasci ispirare dal cinema finisci per fare una copia. Dopo Toro scatenato come si fa a fare un film di boxe!

Come ha girato gli incontri di boxe, molto realistici?

Ho girato dei lunghi piani sequenza in HD e con la camera a mano. Per Joe è stato molto più difficile ma per me questo è l’aspetto documentaristico del film. Ho passato un anno e mezzo in Thailandia e anche per me è stata un’esperienza che mi ha cambiato e voglio che anche il pubblico faccia questa esperienza in diretta. Alla fine delle riprese avevo sei ore di girato che ho dovuto poi ridurre con i tagli, ma solo dopo.

E’ vero che ha girato in una autentica prigione?

Sì, abbiamo girato in un carcere vicino Bangkok, ma i detenuti erano appena stati trasferiti. Quindi era vuoto, ma erano rimasti gli abiti lasciati sul pavimento, cucchiai trasformati in coltelli, foto appiccicate al muro… Non volevo girare in uno studio perché sapevo che gli occhi degli ex detenuti avrebbero espresso qualcosa di diverso in un set ricostruito. 

Perché ha scelto Joe Cole per il ruolo del protagonista?
Ho valutato anche la possibilità di scegliere un attore più famoso, perché avrebbe reso più facile finanziare il film. Però alla fine ho scelto lui: abbiamo avuto meno soldi ma è stata la scelta artistica giusta. Joe è molto robusto ma ha questa vulnerabilità simile a quella di Billy. Per molti attori quelle lunghe scene di boxe sarebbero state troppo forti, ma lui ce l’ha fatta. Aveva fatto un po’ di pugilato in Inghilterra, mai la boxe thai, quindi si è dovuto preparare tanto.

Lei ci porta direttamente dentro la vicenda, senza dare spiegazioni sul passato di Billy. Come è arrivato in Thailandia? Perché si droga? Che rapporto aveva con suo padre?

Se dai troppe spiegazioni – magari con l’uso dei flashback – il film diventa hollywoodiano. E forse non ce n’è bisogno. Non c’è bisogno di raccontare il passato del personaggio. Certo, una delle ragioni della sua violenza è la relazione con suo padre, e questo emerge gradualmente, ma non volevo sottolineare questo aspetto in modo melodrammatico. Però alla fine l’incontro con il padre, che è interpretato dal vero Billy Moore, è come un guardarsi allo specchio e vedere cosa diventerai. Quando ho chiesto a Billy di apparire nel ruolo di suo padre, era spaventato, sapeva che sarebbe stato duro per lui, ma quella è una scena molto importante.

Perché la violenza è così importante per il suo cinema?
E’ una sorta di terapia, credo. Il mio prossimo progetto si intitolerà Addicted to violence ed è la storia di reporter di guerra, un docudrama girato in Libano, Afghanistan e altri paesi dove ci sono conflitti. 

Cristiana Paternò
02 Novembre 2017

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