Claude Lelouch: “Sì, no e la forza del caso”

Claude Lelouch, ospite d’onore del 32° Festival di Mar del Plata dove ha portato il suo ultimo film, Chacun sa vie annuncia un nuovo progetto intitolato Oui et non


MAR DEL PLATA – “Tutti i no che mi hanno detto, mi hanno permesso di incontrare altre persone che mi hanno detto sì. Il sì e il no sono le due cose più importanti nella vita e per questo il mio prossimo film si intitolerà proprio Oui et non e mostrerà la forza del sì rispetto al no. Sarà un film in due parti, Oui e Non…”. Lo annuncia Claude Lelouch, ospite d’onore del 32° Festival di Mar del Plata dove ha portato il suo ultimo film, Chacun sa vie (2017) con Johnny Hallyday, Jean Dujardin e Christophe Lambert, dodici storie d’amore che si intrecciano durante il festival jazz di Beaune. Una conferma del suo stile inconfondibile nel cogliere la vita nel suo farsi con le sue imprevedibili e impreviste svolte.

Il cineasta, che ha da poco festeggiato l’ottantesimo compleanno, circondato da figli, nipoti e amori, ha un legame speciale con il festival argentino perché proprio qui vinse il suo primo premio nel  1965. Una sorta di preludio all’exploit dell’anno seguente, quando con Un uomo, una donna – di certo il suo film più famoso – raggiunse il successo internazionale coronato da due Oscar e la Palma d’oro di Cannes. Con 59 film al suo attivo, Lelouch è uno dei registi francesi più amati dal grande pubblico e contemporaneamente più invisi alla critica intellettuale. A cui non manca di lanciare una stoccata durante questa generosa conversazione aperta da una standing ovation del pubblico locale, che si è messo in fila per un’ora per poterlo incontrare.

Che ricordo ha della sua prima volta a Mar del Plata?

Ero molto giovane, ancora sconosciuto e non sapevo neppure dove fosse Mar del Plata dove mi invitarono con Una ragazza e quattro mitra. Era la prima volta che andavo a un festival di cinema. Ricordo che il giorno della prima la sala era completamente vuota e si è riempita solo durante la proiezione. Sono rientrato in Francia e non ho mai ritirato il premio per la regia, quindi adesso, 50 anni dopo, sono venuto a prendermelo. Il primo premio che vinci resta il più importante. Ho avuto la Palma d’oro, l’Oscar, il Golden Globe, ma quello rimane il più emozionante.

È vero che ha iniziato ad amare il cinema da bambino durante la guerra?
Avevo appena 5 o 6 anni e la mia famiglia di ebrei algerini era perseguitata dai nazisti, così mia madre invece di mandarmi a scuola mi mandava al cinema dove ero più sicuro. La sala mi ha salvato letteralmente la vita. Dopo la guerra ho iniziato ad andare a scuola ed è stato un incubo perché non ero abituato e appena potevo marinavo le lezioni per andare a vedere un film. Mi bocciavano sempre. Alla vigilia della maturità mio padre disse a mia madre: se lo bocciano ancora, gli compro una cinepresa e ce lo leviamo dai piedi. E così fu.

Ha iniziato facendo documentari.
Non volevo fare il regista. Sono partito per gli Stati Uniti perché avevo il mito dell’America, adoravo i western e i musical. Sono rimasto lì per un anno, ma mi hanno deluso, non era il paese dei miei sogni. Allora ho deciso di partire per la Russia. La tv canadese aveva lanciato un concorso, davano 10mila dollari a chi avesse raccolto le prime immagini del mausoleo di Lenin e Stalin. Mi sono iscritto al Partito comunista e ho fatto pratica per imparare a filmare di nascosto a Parigi, tenendo la cinepresa sotto un impermeabile. Poi sono partito in treno insieme a tre compagni di partito che facevano un viaggio di gruppo. Sono arrivato a Mosca dopo tre giorni di viaggio e ho iniziato a filmare. La fortuna volle che incontrassi un tassista che era molto amico del capo degli studi Mosfilm. E quello è stato il giorno più importante della mia vita, perché sono stato sul set di Mikhail Kalatozov, che all’epoca, nel 1957, stava girando Quando volano le cicogne. Lì ho capito cosa volevo fare nella vita e ho capito anche che l’attore principale del film è la macchina da presa.

È iniziato tutto per caso.
Il caso ha guidato tutta la mia vita e per questo nei miei film sono tanto attento a questo aspetto. È la parte irrazionale che sta in ciascuno di noi. L’intelligenza ha paura di tutto, è pragmatica, calcolatrice, mentre la parte irrazionale ha coraggio. I miei film mescolano razionale e irrazionale, ma l’irrazionale è più forte e per questo i miei lavori parlano più al cuore che all’intelletto.

Qual è la fonte di ispirazione dei suoi film e perché la interessano tanto le storie d’amore?

I miei film sono il risultato delle mie osservazioni sugli uomini, le donne, la natura, gli animali… Sono quasi sempre basati su storie vere e persone che esistono. Il presente è l’unica cosa che abbiamo. Cerco la spontaneità, un profumo di verità, una via di mezzo tra verità e bugia. Mi interessano le storie d’amore perché l’amore è l’ossessione dell’umanità. Io amo tutto: il freddo, il caldo, il mare, la montagna, le persone intelligenti e gli stupidi, anzi con gli stupidi si possono fare i film migliori. La vita è un viaggio straordinario.

Lei ha sempre avuto un rapporto difficile con la critica.
Ai tempi del grande successo di Un uomo, una donna vennero da me quelli dei ‘Cahiers du Cinéma’, con Truffaut in testa, a propormi di fare uno speciale sul film perché mi consideravano il miglior rampollo della Nouvelle Vague. Ero onorato, anche perché qualche anno prima avevano scritto peste e corna di me, però ho voluto precisare: “Non sono un figlio della Nouvelle Vague, sono un figlio del cinema, la Nouvelle Vague mi ha insegnato cosa non deve fare un regista. I vostri film sono troppo pretenziosi, cercano di dare lezioni, di fare la morale. I miei film sono divertimento puro. Nella Nouvelle Vague non c’è la ricreazione, ma solo lo studio”. Dopo queste affermazioni c’è stato un divorzio tra me e la critica che dura tuttora: dire male dei Cahiers era come condannarsi a morte da soli.

Quindi lei non legge le critiche.
Bisogna leggerle ma solo dopo aver visto il film, mai prima. Perché siccome vi raccontano la trama e la raccontano male, vi influenzano. Ai festival per fortuna non c’è tempo di leggere. Si salta da un film all’altro e si passa di sorpresa in sorpresa. Bisogna scegliere un film, come si sceglie una donna, prendendo dei rischi.

Comunque nonostante i dissapori con la Nouvelle Vague ha partecipato al movimento del ’68.
Sì, quel movimento non aveva regole né logica e mi ha permesso di fare film ancora più folli. Mi ha permesso di amare la Francia ancora di più. La Francia è il paese dove tutto è possibile, tutto è permesso. Io so nuotare così bene in queste acque che ho fatto cinquanta film dentro questo sistema. Amo questo paese con tutte le sue contraddizioni o forse per questo. È il paese della libertà e la libertà non ha prezzo.

Perché dopo l’Oscar a Un uomo, una donna non è andato a lavorare a Hollywood?
Prima di tutto perché parlo male l’inglese e poi perché mi proposero un film incredibile con Steve McQueen e Marlon Brando. Ma quando sono andato lì mi sono reso conto che il film sarebbe stato del produttore, addirittura mi dicevano quante volte dovevo inquadrare i due attori, tutto era prestabilito. Io amo filmare la vita con tutte le sue imperfezioni, il mio cinema sorprende anche me. Quando comincio a girare non so dove andrà a finire la storia, così come non conosco la data della mia morte. Se fossi andato a Hollywood avrei tradito me stesso e la mia storia d’amore col cinema.

Lei è anche sceneggiatore e produttore dei suoi film.
Certo, anche perché non uso sceneggiature di ferro, scrivo giorno per giorno. Come dicevo è la vita a guidare le mie storie. Nel finale di Un uomo, una donna Anouk Aimée non sapeva che Jean-Louis Trintignant sarebbe sbucato da dietro la macchina da presa in stazione e la sua emozione è reale, forte e vera. Ma un produttore non accetterebbe mai il mio modo di lavorare. 

Cristiana Paternò
18 Novembre 2017

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