Ziad Doueiri: “Diviso tra due culture, ma credo nella pace”

In sala dal 6 dicembre con Lucky Red il film libanese vincitore della Coppa Volpi a Venezia per l'interpretazione di Kamel El Basha


Tentativi di boicottaggio, polemiche accese e persino problemi con le autorità al rientro dalla Mostra di Venezia. E’ tormentato, ma proprio per questo necessario, L’insulto di Ziad Doueiri. Apologo sui conflitti insanabili che insanguinano il Medio Oriente (e naturalmente si potrebbe estendere anche ad altri scenari), il film franco-libanese (a produrlo anche Julie Gayet, ex compagna dell’ex premier Hollande), in uscita il 6 dicembre con Lucky Red, ha ottenuto a Venezia la Coppa Volpi per l’interpretazione di uno dei due protagonisti, il palestinese Kamel El Basha, inoltre è stato designato per rappresentare il Libano agli Oscar come Miglior Film Straniero.

Racconta la lite all’ultimo sangue tra il capomastro palestinese Yasser (Kamel El Basha) e il cristiano Toni (Adel Karam). Toni, un meccanico piuttosto fumantino, non vuole sistemare la grondaia del suo balcone che scarica acqua sporca in testa all’edile. Volano parole grosse e quando Yasser si reca in officina per chiedere scusa, costretto dal suo datore di lavoro pena il licenziamento, l’altro lo provoca con una frase inaccettabile: “Ariel Sharon doveva sterminarvi tutti”. Parte un cazzotto e la diatriba finisce in tribunale dove il processo arriva a coinvolgere l’intero paese con tifoserie, scontri di piazza e tanti scheletri nell’armadio da entrambe le parti in un Libano scosso da una sotterranea guerra civile permanente. Il 54enne Doueiri avverte fin dai titoli di testa ‘quest’opera non riflette nessuna posizione ufficiale del governo’. Ex cameraman di Pulp Fiction e Le Iene, al quarto lungometraggio dopo West Beyrouth che lo rivelò a Cannes nel 1998, il cineasta conduce lo spettatore attraverso un labirinto processuale con tanti colpi di scena, con l’intento morale di farci comprendere le ragioni di tutti al di là di stereotipi e opinioni precostituite. Con in più lo stratagemma di due avvocati che si fronteggiano e che sono anche padre e figlia. A Roma abbiamo incontrato il regista, che mette le mani avanti: “Sono stato bocciato al liceo, non sono un esperto di filosofia e non sono bravo a fare analisi politiche sul futuro del Medio Oriente. Le mie risposte sono legate alla mia esperienza personale, fatemi domande semplici”. 

Il film è uscito in Libano il 14 settembre. Come è stato accolto?
Nonostante i tentativi di boicottarlo è ancora primo al botteghino.

Come è nato L’insulto? E’ vero che c’è uno spunto autobiografico?
Non c’è un solo motivo alla base del film, ma sicuramente l’elemento scatenante è un incidente personale che mi è capitato quattro anni fa a Beirut. Mia moglie, anzi la mia ex moglie, e co-sceneggiatrice, era incinta. Non avevamo un soldo perché il mio progetto di allora, The Attack, era stato bloccato dalla Universal Studios. Collezionavo cactus e li stavo annaffiando quando è caduta un po’ d’acqua sugli operai che lavoravano lì sotto. Un operaio arabo mi ha dato del “pappone”, che per noi è un’offesa tremenda, allora io gli ho risposto: “Vorrei che Ariel Sharon vi avesse sterminati tutti!”.  Poi sono sceso a scusarmi ed è finita lì, ma più tardi ho cominciato a fantasticare sulla storia che poteva partire da questo piccolo incidente, perché in Libano da una cosa sciocca possono sorgere enormi problemi.

Come ha collaborato alla sceneggiatura con Joelle Touma?
Quando le ho fatto leggere il trattamento, si è riconosciuta appieno. Lei viene da una famiglia di estrema destra molto ostile ai palestinesi ai tempi della guerra civile del 1975, mentre i miei erano favorevoli all’Olp e quindi sono cresciuto con un sentimento anticristiano, noi siamo una famiglia laica ma di origine musulmana. Ho suggerito che Joelle scrivesse le scene dell’avvocatessa che difende il palestinese e io quelle scene dell’avvocato che difende il cristiano, invertendo le parti. Questo ci ha permesso di metterci nei panni dell’altro. L’insulto per me è anche una risposta agli attacchi che avevo subito per il mio film precedente The Attack.

In che senso?
The Attack è stato boicottato dal movimento di estrema sinistra in tutti i paesi arabi, tranne il Marocco. Si tratta del gruppo Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, un movimento contro Israele sostenuto anche da artisti occidentali come Ken Loach, Roger Waters e Brian Eno. L’insulto l’ho scritto anche come risposta a questo boicottaggio. Oggi sono abbastanza contrario a queste posizioni perché secondo me usano tecniche fasciste. Quando sono tornato dalla Mostra di Venezia volevano impedire che L’insulto uscisse in Libano ma poiché non avevo violato nessuna legge per girare quel film, mi hanno arrestato in base al vecchio dossier di The Attack, in seguito a una denuncia fatta dal BDS. Il boicottaggio è riuscito a Ramallah, ma non al Festival di Cartagine, dove le persone sono accorse in massa a vedere il film.

Lei cosa pensa della causa palestinese?

Tutti condividiamo la causa palestinese, siamo tutti d’accordo che l’occupazione debba finire. Ma qui stiamo parlando di un film.

Lei ha lavorato con Quentin Tarantino: questa esperienza l’ha travasata nel suo cinema?

Quentin non ha mai fatto un film processuale, anche se gli americani sono esperti di questo genere. Sono emigrato negli Stati Uniti quando avevo 19 anni, ho frequentato la scuola di cinema a San Diego e poi ho lavorato a Hollywood come assistente. Se fossi andato a Mosca certamente i miei film sarebbero diversi.

Cosa l’ha attratta nel film processuale?

Il dramma giudiziario è perfetto per mettere in discussione l’establishment. L’aula di tribunale funziona dal punto di vista drammaturgico. E poi sono cresciuto in una famiglia di avvocati: mia madre è avvocato, tre zii sono giudici, uno dei quali della Corte Suprema. Le questioni giuridiche hanno sempre fatto parte della nostra vita.

Ha avuto anche dei modelli cinematografici?
Mentre scrivevo ho visto molti film americani, tra cui Il verdetto di Sidney Lumet, Philadelphia di Jonathan Demme, Vincitori e vinti di Stanley Kramer, sul processo di Norimberga, che per me è uno dei migliori, La parola ai giurati ancora di Lumet. Mi sono chiesto se il pubblico sia ancora interessato a questo genere, non lo so, ma come cineasta devi fare quello che è giusto per te. Ci sono ben nove scene che si svolgono in tribunale ne L’insulto, e ne avrei volute 13. Per me l’importante è non essere ripetitivo, cosa che sono riuscito a fare insieme al direttore della fotografia, l’italiano Tommaso Fiorilli. Il film processuale non parla di questioni giuridiche ma della psicologia dei personaggi e in ogni scena ci sono delle rivelazioni.

Pensa che sia possibile un processo di pacificazione in Medio Oriente?

Non posso dire che il governo non voglia la pace sociale, il Libano non è una dittatura, è una democrazia, anche se siamo un po’ matti. Ma non è mai stato fatto uno sforzo cosciente per riconciliare le persone.

Lei da che parte si sente?
Ho vissuto metà della mia vita in Libano e il resto tra Stati Uniti e Francia. Ancora faccio il giocoliere tra queste due culture. Non so se appartengo all’Occidente o all’Oriente. Fin dall’infanzia mi sono sentito fuori, il Ramadan mi era estraneo ma anche il Thanksgiving lo era… Però il Medio Oriente è ricco di materiale narrativo, di conflitti cinematografici e c’è sempre anche un elemento di commedia. Quindi, anche se non mi sento libanese al 100%, continuerò a raccontare storie di quella cultura.

Come si sente a rappresentare il Libano agli Oscar?
Bene, è una bella cosa. Quest’anno c’è una competizione di grande livello, penso al film russo e al cileno. Ci sarà da divertirsi.

   

Cristiana Paternò
30 Novembre 2017

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