Serge Toubiana: “Il rituale della sala non potrà morire”

Ai Rendez-Vous di Parigi abbiamo incontrato il nuovo direttore di Unifrance e gli abbiamo chiesto un bilancio sul cinema francese all'estero e sulla situazione di quello italiano in Francia


PARIGI – Cresciuto alla mitica scuola dei ‘Cahiers du Cinéma’, dove si affacciò timido e poco più che ventenne all’inizio degli anni ’70, diventandone direttore dieci anni dopo, Serge Toubiana dallo scorso luglio è il presidente di Unifrance, l’organismo che si occupa della promozione del cinema francese all’estero. Un nuovo incarico prestigioso per l’allievo di Serge Daney, artefice del rinnovamento di un’istituzione cruciale per la cultura transalpina come la Cinémathèque française, da lui diretta dal 2003 fino al 2016. Lo abbiamo incontrato a Parigi, nel corso dei Rendez-Vous organizzati da Unifrance.

Qual è lo stato di salute del cinema francese all’estero?

Siamo contenti. Il 2017 è stato un anno molto buono, decisamente migliore rispetto a quello precedente. 80 milioni di spettatori sono un ottimo risultato, ma è la situazione non è consolidata. Ogni anno bisogna ricominciare da capo a sedurre i distributori stranieri, i compratori e ovviamente gli spettatori. La difficoltà di oggi, per tutti i mercati, è la grande rivoluzione del digitale. Non sappiamo più dove sono gli spettatori: nelle sale, ma anche altrove, dietro a un computer o a un tablet. L’offerta si è moltiplicata e abbiamo accesso a tutto, ma al tempo stesso è un’offerta senza memoria. Ho amato lavorare per tanti anni alla Cinémathèque, dopo aver fatto il critico, impegnandomi nel preservare la memoria, nel mostrare film di autori come Fellini. a cui dedicammo dieci anni fa una retrospettiva. Ricordo bene le code incredibili per La dolce vita o 8 1/2, film disponibili ovunque, ma la gente veniva perché non li aveva mai visti sul grande schermo, era un momento sacro. Vedere un film in sala non ha niente a che fare con l’esperienza di visione su un televisore, o peggio ancora su internet. Credo fermamente al rituale del cinema, non potrà morire.

Quindi è ottimista?

Assolutamente sì. In Italia invece la situazione è più precaria. Ho visto le cifre del vostro paese e penso che una condizione tanto critica sia destinata a migliorare. Bisogna che l’industria si svegli, c’è tanto lavoro da fare. Noi in Francia abbiamo i distributori, i produttori, i registi, gli esportatori, tutti mobilitati attorno all’idea di difendere il cinema francese, non importa se girato in inglese o in francese. Ci sono cineasti africani e autori come Verhoeven che vengono a girare da noi. In Francia abbiamo il gusto della libertà.

Per quanto riguarda l’uscita di film italiani in Francia come vanno le cose?

La situazione non è buona, nonostante iniziative come il festival de Rome à Paris, che si terrà il prossimo fine settimana, dove presenterò un documentario formidabile sul mio amico Marco Ferreri. Tutta la mia generazione ha imparato dal cinema italiano. Sono cresciuto in Tunisia e da bambino vedevo i peplum, tutti italiani. Ho avuto la fortuna di intervistare Sergio Leone, Antonioni, Fellini. Amiamo il cinema italiano, è la nostra seconda lingua, ma oggi non è la stessa cosa. Abbiamo bisogno di un partner, per continuare il cammino insieme, Italia e Francia, come nel passato. Bisogna aiutare il nuovo cinema italiano a trovare gli schermi, il che è difficile, visto che sono occupati da grandi blockbuster come Star Wars, che in Francia è uscito in 1000 schermi.

Lei è d’accordo con il direttore del Festival di Cannes, Thierry Frémaux, che non accetta film che saltino il passaggio in sala prima dello streaming?

Naturalmente sì. Il mio mestiere è quello di spettatore, non sono un professionista del cinema. Se guardo un film prodotto da Netflix e non posso vederlo in sala non esisto più come spettatore. Penso che un film, qualunque sia il suo modello economico o il suo genere, debba pensare allo spettatore. Non ho voglia di vedere un film per la prima volta in televisione, dove semmai lo posso rivedere una seconda volta. Il primo appuntamento con un film deve essere davanti a un grande schermo, non voglio perdere questo privilegio. Un film che va a Cannes o a Venezia deve andare incontro allo spettatore, altrimenti ci diamo la zappa sui piedi. Poi ci sono le serie televisive, che hanno una qualità sempre migliore, ma sono basate sul modello cinematografico; non si creda che abbiano inventato qualcosa.

Qual è il segreto del successo del cinema francese?

La varietà. I primi tre incassi all’estero sono un film di fantascienza, uno d’animazione e una commedia. Nasco dalla critica, che mi ha insegnato a mantenere uno sguardo aperto, penso che il nostro ruolo a Unifrance sia difendere tutta la vasta gamma di produzioni che rendono quella francese una vera cinematografia. L’animazione, per esempio, per noi è molto importante e si esporta bene, perché propone un linguaggio legato all’immaginario.

Qual è stato l’incontro più importante della sua carriera?

Senz’altro quello che ho avuto a 25 anni con François Truffaut. Penso a lui tutti i giorni, ho scritto una biografia su di lui, fatto un documentario e una retrospettiva alla Cinémathèque.

Come mai Truffaut rimane un autore a cui il pubblico, anche i giovani, sono ancora tanto affezionati?

Un suo film ti sussurra all’orecchio, è un’esperienza intima in cui lui racconta direttamente a te qualcosa che non dimenticherai. Godard è un’altra cosa, è plastico, ti impone qualcosa, come fa un pittore, sconvolgendoti con la sua maestria.

I ‘Cahiers du Cinéma’ hanno attraversato fasi e periodi molto diversi tra loro.

All’inizio ero maoista.

Per voi il cinema americano per molti anni è stato il male, salvo poi ricredervi.

Fortunatamente ho cambiato idea. Sono arrivato ai Cahiers molto giovane, ero di estrema sinistra, e con il mio mentore Serge Daney, a forza di litigi, ho aiutato la rivista a uscire dal suo periodo maoista e riscoprire il piacere del cinema. Abbiamo sbagliato su Fassbinder e molti altri, poi abbiamo fatto ammenda, quando ero capo redattore negli anni ’70. Ho deciso a un certo punto, insieme al giovane collaboratore Olivier Assayas e al fotografo Raymond Depardon, di andare negli Stati Uniti. Abbiamo realizzato due numeri speciali, Made in USA. È stato magnifico, ha cambiato tutto. Ho imparato, andando contro me stesso, ad aprire gli occhi, viaggiare, essere meno ideologico e dogmatico accettando l’arte cinematografica nella sua libertà. Ci sono cose che ami, altre che non ami, ma è un sistema che nel suo complesso funziona. Se vedi solo brutti film ti annoi, se vedi solo bei film in qualche modo ti annoi lo stesso. Bisogna capire il valore della varietà.

Mauro Donzelli
23 Gennaio 2018

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