Kornél Mundruczó: “Con la fantascienza dall’Ungheria a Hollywood”

La scorsa primavera è stato a Cannes in concorso con il suo terzo film 'Jupiter’s Moon'. Prossimamente sarà impegnato a Hollywood sul set di 'Deeper', una grossa produzione MGM


TRIESTE – La scorsa primavera è stato ospite a Cannes, dove il suo terzo film Jupiter’s Moon ha corso in gara per la Palma d’Oro. Prossimamente sarà impegnato a Hollywood sul set di Deeper, una grossa produzione MGM in cui dirigerà la “wonder woman” Gal Gadot e l’american sniper Bradley Cooper, ma nei suoi progetti futuri c’è anche l’adattamento per il grande schermo del romanzo Ghiaccio di Vladimir Sorokin. È Kornél Mundruczó, regista ungherese di cinema e teatro, ospite in questi giorni del Trieste Film Festival. Insieme abbiamo parlato della sua visione dell’Europa, tra arte, fede e ondate di populismo.

Kornél Mundruczó, pensa che ci vorrebbe un miracolo o un magico superpotere, come quello di Aryan, il protagonista del suo film, per mettere l’Europa a riparo dal rischio di una catastrofe?

Credo che sia necessario avere fede. Non per forza una fede religiosa, ma bisogna ricominciare a credere in qualcosa. Appartengo a una generazione di ungheresi chiamata “generazione zero”, senza legami con il passato comunista e, anzi, ricordo che c’è stato un momento in cui abbiamo creduto tutti nel sogno di un’Europa unita, nella democrazia liberale e perfino nel capitalismo. È passato del tempo da quando siamo entrati a far parte dell’Unione europea, tredici o quattordici anni. Il sogno però non si è avverato. Niente giardino dell’Eden. E allora molta gente ha perso la fiducia. La crisi economica, inoltre, ha colpito duro portando con sé una pesante crisi morale. La società di oggi è governata da una paura insensata, dall’incertezza, anche perché è chiaro a tutti che non si possono più fare piani a lungo termine, che invece era un punto cruciale durante il comunismo. Questo è il clima ideale per il diffondersi del populismo. Bisogna ricominciare a credere. E certo, i miracoli aiutano sempre, l’arte di per sé è un miracolo.

E possiamo aspettarci un happy ending? O queste cose accadono solo nei film?

Non sono così naif da credere in un happy ending, però mi sento ottimista perché credo che l’Ungheria e l’Europa intera troveranno una via d’uscita. E allora saremo più forti. Dobbiamo andare fieri dell’esperienza e della storia europee. È attraverso la nostra storia e il nostro sapere che troveremo il modo per risolvere i problemi che stiamo attraversando. Questo mio atteggiamento positivo è quello che volevo trasmettere anche in Jupiter’s Moon, mettendo in relazione due anime perse: Aryan e il dottor Stan. E ovviamente il punto di vista di Stan è quello che io auspico diventi realtà. Significa che puoi essere cinico, pessimista, ma se qualcosa ti colpisce, come ha colpito lui, c’è ancora speranza in un cambiamento. Certo non so quando potrebbe avvenire questo cambiamento. Ma questi anni, questi tempi, sono perfetti per l’avanzare del populismo e dobbiamo assolutamente capire quanto sia vuoto il populismo.

La questione morale è sempre un elemento centrale nei suoi film. Pensa che il cinema sia uno strumento per affermare la sua posizione politica?

Non per una dichiarazione politica, sono molto lontano dal credere nella protesta attraverso l’arte, perché la trasforma in qualcosa che non è più arte. L’arte non è altro che provocazione e solitudine. E se vuoi lanciare una provocazione, dev’essere una provocazione universale, non solo rivolta a chi la pensa in modo diverso da te. Dalle nostre parti abbiamo avuto un cattivo influsso in questo senso, perché l’arte sovietica era troppo ideologica. Devo dire, però, che l’arte sovietica non è troppo lontana dalla rappresentazione storica prodotta a Hollywood, che in molti sensi è altrettanto naif e manichea. In ogni caso penso che la cultura e l’arte siano l’unica strada da percorrere per poter rinfrescare il pensiero etico e morale. Come un faro nel porto, ci deve indicare la via. Attraverso l’arte si può rimanere in contatto con una comunità più vasta. E allora, ripeto, in molti sensi l’arte in Europa è incredibilmente ricca e in altri termini è un riflesso astratto del nostro pensiero. Dobbiamo esserne orgogliosi ed esportarla con fierezza, non distruggerla pensando sempre al mercato: se si può vendere è arte, se non si vende non lo è. Non dobbiamo ragionare in questi termini.

Come mai ha scelto di raccontare una realtà legata alla cronaca dei giorni nostri attraverso i codici della fantascienza?

Perché non credo nel realismo. Sono sempre stato un po’ sospettoso nei confronti delle storie realistiche, non so mai fino a che punto posso fidarmi. Trovo che una favola possa essere più efficace, arrivare alla verità più del realismo. Sei libero di costruire molte più contraddizioni nella dimensione della favola. Ero convinto fin dal principio che il genere o la mescolanza di generi, la fantascienza in particolare, sarebbe stato lo sfondo ideale per la storia che volevo raccontare.

Quali sono state le reazioni nel suo paese all’uscita di Jupiter’s Moon? Ci sono state dichiarazioni da parte del governo di Orban?

No, nessuna reazione da parte del governo, ma va tenuto presente che la realtà non è manichea come può apparire da fuori. Sarà accaduto anche a voi sotto il governo Berlusconi, sicuramente la situazione era più sfaccettata rispetto a come veniva percepita all’estero. Come ai tempi del comunismo, non subiamo censure. Non ci sono attacchi diretti contro un film come il mio. Io lavoro in libertà, non devo accettare compromessi. Jupiter’s Moon è stato finanziato dallo Stato, in base alla stessa sceneggiatura che ho presentato anche all’estero. Al tempo stesso è ovvio che un film come questo non diventerà mai un vanto nazionale. Resta un film indipendente che si rivolge alla sua ristretta platea. La reazione del governo quindi è stata il silenzio. Sei libero di fare ciò che vuoi, ma vieni ignorato e se lo fai all’estero è meglio.

Il cinema ungherese attraversa un buon momento. Lo scorso anno Corpo e anima di Ildikó Enyedi ha vinto l’Orso d’oro a Berlino, l’anno precedente Il figlio di Saul di László Nemes ha conquistato l’Oscar come miglior film straniero, il suo film è stato in concorso a Cannes. Da dove viene tutta questa energia?

Il cinema ungherese ha sempre riflettuto molto sulla propria società. Abbiamo una lingua nostra, siamo un popolo di rivoluzionari, anche in campo artistico. E quindi non sono troppo sorpreso. E sono anche orgoglioso che gli sforzi degli ultimi vent’anni abbiano cambiato l’immagine del cinema ungherese. Non c’è più la cortina di ferro, tutti i nostri film mostrano la realtà contemporanea del nostro Paese e non mi pare che questo si possa dire di tutta l’Europa dell’Est. Spesso i film dell’Est erano associati a un’estetica un po’ triste, tipicamente “da Est europeo”. Siamo riusciti a superare questo pregiudizio, che si riferiva forse alla generazione precedente alla nostra. Inoltre, c’è un’industria che funziona. Budapest è uno dei centri più importanti in Europa, si girano tre grossi film americani all’anno, molte serie norvegesi e svedesi, film francesi, tedeschi. Ci sono ottime maestranze, tecnici, servizi di post produzione. Quando ho cominciato i mezzi erano limitati, anche il linguaggio era più limitato. Ma ora è tutto diverso. Si può sognare. Molti DOP si formano in America, in Gran Bretagna, in Polonia, e molti registi educati all’estero sentono di poter tornare in Ungheria per lavorare. Nemes, per esempio, è uno di questi. Oltre ai mezzi abbiamo una buona tradizione alle spalle, io mi sento assolutamente connesso con il nostro passato. C’è un nesso tra me e Miklós Jancsó, non mi sento estraneo alle mie radici. Abbiamo la stessa estrazione culturale.

Quale sarà il suo prossimo film?

Non è mai facile sapere cosa verrà dopo. Sto lavorando a diversi progetti. Sono impegnato sul fronte di un piccolo film ungherese, ma ho anche acquistato i diritti di un incredibile romanzo di fantascienza dello scrittore russo Vladimir Sorokin. Si intitola Ghiaccio. Poi, se tutto va bene, a giugno dovrei cominciare a girare Deeper, una grossa produzione MGM, con due star come Gal Gadot e Bradley Cooper. È una bellissima sceneggiatura scritta da Max Landis, ambientata all’interno di un minuscolo sottomarino, poco più di una sfera nell’acqua, con la macchina da presa sempre incollata ai protagonisti. Sarà un film claustrofobico, un lungo viaggio verso il luogo più profondo della terra. Lo vedremo nel 2019.

Beatrice Fiorentino
27 Gennaio 2018

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