Matteo Garrone: “Tra Buster Keaton e la Magliana”

In concorso a Cannes e in sala con 01 (con un divieto ai minori di 14 anni), il nuovo film del regista di Gomorra e Reality. "La vicenda del Canaro è stata solo uno spunto iniziale"


CANNES – Un rapporto ambiguo, fatto di sudditanza psicologica e imprevisti scarti di ribellione. Un luogo lunare, ai margini della civiltà. Una comunità chiusa in se stessa e con le sue regole sottintese di inclusione ed esclusione. E due personaggi che restano impressi nell’anima: Marcello (Marcello Fonte), uomo fisicamente delicato, dall’animo gentile che gestisce un negozio di toeletta per cani e stravede per la figlioletta Alida (Alida Baldari Calabria) con cui sogna viaggi esotici e fa immersioni subacquee. E Simoncino (Edoardo Pesce), ex pugile suonato, cocainomane, manesco, che tiene in scacco il villaggio con le sue uscite da matto. In questo contesto, per certi versi primordiale, dove spesso gli animali sono umani e gli uomini bestiali, si consuma la follia di Marcello, schiacciato quotidianamente dai soprusi di Simoncino.

Con Dogman, suo quarto film in concorso a Cannes dove ha già vinto due Grand Prix (per Gomorra e Reality), il 49enne Matteo Garrone conferma il suo enorme talento visivo sempre accompagnato da una sensibilità a fior di pelle e la maestria nella direzione degli attori che nelle sue mani diventano figure tridimensionali. Ispirato al celebre efferato delitto del Canaro della Magliana, un fatto di cronaca che scioccò l’opinione pubblica nel 1988, trent’anni fa esatti, e che è al centro di un altro film di Sergio Stivaletti e del libro scritto a quattro mani di Antonio Del Greco e Massimo Lugli, oltre che di un racconto di Vincenzo Cerami contenuto nel volume “Fattacci”, Dogman se ne discosta volutamente concentrandosi sul “prima” e dando poco spazio all’inevitabile ribaltamento vittima-carnefice. Ogni soluzione splatter è evitata dal regista, anche sceneggiatore con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, e produttore con la sua Archimede, insieme a Rai Cinema, Le Pacte, Regione Lazio e Regione Campania, Eurimages. Collaboratori di sempre: il montatore Marco Spoletini, lo scenografo Dimitri Capuani, il costumista Massimo Cantini Parrini, mentre la fotografia è di Nicolaj Bruel. Dogman è in sala da oggi, 17 maggio, con 01, vietato ai minori di 14 anni. 

Cosa l’ha ossessionata in questa storia al punto da girarci intorno per 12 anni?

Quando lessi il fatto di cronaca ne fui affascinato. Compresi che questo personaggio, con le sue luci e ombre, mi era congeniale. C’era una suggestione visiva forte, quella di alcuni cani, chiusi in una gabbia, che assistono come testimoni all’esplodere della bestialità umana. Un’immagine da cui sono partito. Avevo una sceneggiatura pronta ma poi girai Gomorra e penso che sia stato un bene perché quella sceneggiatura era meno efficace, le location erano sbagliate, il cast anche. E soprattutto all’epoca non avevo ancora avuto mio figlio, mentre il rapporto di Marcello con la figlia è uno dei cuori pulsanti del film.

Cosa le impedì di andare avanti?

La cosa che mi bloccava in qualche modo era la paura della parte più violenta di questa storia, le torture, lo splatter, una parte che è stata completamente eliminata. Del resto non mi interessava ricostruire le cose come sono andate, non ho mai voluto incontrare De Negri, ad esempio. Mi dispiace che il film riporti questo fatto di cronaca alla ribalta oggi, sui giornali, perché c’è chi ha perso un figlio, chi è stato coinvolto. Sottolineo che il mio film è indipendente dal fatto di cronaca, come sempre accade nel mio cinema quando parto da circostanze reali.

La considera una storia di vendetta? 

Non solo. La vendetta – ma sarebbe meglio chiamarla riscatto – gioca un ruolo importante, come pure il tema eterno della lotta tra il debole e il forte. Però è un film che, attraverso una storia estrema, ci mette di fronte a qualcosa che ci riguarda tutti: le conseguenze delle scelte che facciamo quotidianamente per sopravvivere, i sì che diciamo e che ci portano a non poter più dire no. Nell’accostarsi alla perdita dell’innocenza di un uomo, credo e spero che Dogman sia un film universale, “etico”. 

Il suo cinema parte sempre, innanzitutto, dai corpi degli attori che diventano anche corpi dei personaggi, quasi in un tentativo di “rubare” l’anima dei suoi protagonisti e in una ambigua mescolanza tra realtà e finzione. Quanto è stato importante incontrare Marcello Fonte?

C’è stata una fase, molto tempo fa, in cui avevo pensato di chiedere a Roberto Benigni di essere protagonista del film, che all’epoca si doveva chiamare L’amico dell’uomo. Aver trovato Marcello ha chiarito alcuni snodi della storia che mi erano rimasti oscuri. Ha liberato completamente la vicenda dal fatto di cronaca. Il buono che si trasforma in un mostro era una figura che mi bloccava nella scrittura perché era qualcosa di già visto. Di film belli su questo tema ce ne sono tanti da Cane di paglia a Un borghese piccolo piccolo. Marcello Fonte, con la sua umanità, non cade mai in quella mostruosità, rimane umano fino alla fine e ne porta i segni. Questa strada l’abbiamo trovata insieme, durante le riprese, proprio grazie a lui.

Come vi siete incontrati?

E’ stato casuale. Marcello viene dalla Calabria, da Melito di Porto Salvo, a Roma era il custode del Cinema Palazzo, a San Lorenzo, un luogo occupato dove si fa teatro e cinema. Un giorno, all’improvviso, è morto uno degli attori della compagnia di ex detenuti, per un aneurisma, e lui ne ha preso il posto. Lo spettacolo era Tempo binario, tratto da Marcel Proust. E’ stato così che è diventato attore. E’ stato anche sul set di Gangs of New York e si è fatto fotografare con Di Caprio da Daniel Day Lewis (e mostra la foto sul telefonino, ndr). Guardate che presenza scenica…  

E invece con Edoardo Pesce, un attore che l’anno scorso abbiamo applaudito qui a Cannes in Fortunata e Cuori puri, per cui è stato anche candidato ai Nastri d’argento, com’è andata?

Edoardo ha fatto un lavoro fisico, in sottrazione rispetto alla parola, allenandosi molto in palestra e cercando di dimagrire. Doveva incutere timore. Se sbagli il cattivo, sbagli il film, come si dice.

Lei ripete spesso che il fatto di cronaca è stato solo uno spunto iniziale. C’è anche la preoccupazione di evitare i problemi legali, in particolare con la madre del pugile che ha minacciato querele?

Non mi preoccupo dei problemi legali ma dell’equivoco che si può creare nello spettatore. Qualcuno potrebbe andare a vedere questo film alla ricerca di aspetti morbosi o splatter, qualche altro potrebbe evitarlo per timore di una violenza esibita, invece la violenza qui è essenzialmente psicologica.

Come ha costruito i due personaggi?

Li ho reinventati anche in base ai loro trascorsi. Per Marcello sono partito da un’immagine, un animale erbivoro che diventa carnivoro, anche se poi da qui mi sono evoluto. Io creo sempre dei legami col personaggio in maniera inconscia, mi lego ai miei personaggi e questo l’ho sentito vicino sin dall’inizio, poi Marcello l’ha scaldato ancora di più rispetto a quello che era scritto in sceneggiatura perché ha una purezza e un’innocenza particolari. Marcello, il personaggio del film, non segue un percorso razionale, ha una personalità scissa e questo lo rende moderno e al tempo stesso è così antico, incarna un’Italia che sta scomparendo, insomma ha portato un mondo antico in un personaggio che si confronta con problematiche che non hanno tempo. Uno dei riferimenti è stato il cinema muto, Buster Keaton e Chaplin, riescono a trasmettere comicità e dolcezza, ma anche dei chiaroscuri.

I rapporti di sudditanza psicologica la affascinano da sempre, penso ad esempio a Primo amore, un film molto vicino a questo.

Il rapporto con un prepotente, un violento, ma anche il rapporto col villaggio, sono essenziali. Marcello vuole che tutti gli vogliano bene, sbaglia nelle sue relazioni umane, ha paura: queste sono tutte emozioni universali. Come dicevo per me è un Buster Keaton moderno, ha un forte legame col cinema muto e con la semplicità di sentimenti che diventa complessa. Marcello si ritrova dentro un meccanismo che non sceglie. E’ a contatto con dinamiche di violenza suo malgrado. Subisce la fascinazione di Simoncino perché l’ex pugile ha qualcosa che lui non ha, ma ne ha anche paura.

E’ quasi un rapporto d’amore.

Ne L’imbalsamatore si parla di un amore impossibile, in Reality c’è l’aspetto illusorio del successo, ma c’è sempre un rapporto con la violenza. In questo caso c’è la sudditanza. Marcello è un personaggio che ha un’indole mite, buona, pacifica, e si trova a relazionarsi con un animale feroce.

Cosa la avvicina a questi personaggi?

Credo che il conflitto interiore sia noto alla maggioranza delle persone che vivono in una società come la nostra, dove c’è molta paura e si cerca di sopravvivere e gestire le relazioni umane magari accontentando tutti. Marcello è un personaggio pieno di contraddizioni, non lineare. Ha paura di Simoncino, ma lo salva. Soprattutto vuole che sia riconosciuta la sua dignità di uomo.

C’è un elemento western nel film.

Sì, anche nella scelta di questo luogo di frontiera dove la comunità è così importante, è un ambiente che diventa in qualche modo metafora della società contemporanea.

Avete trovato dei luoghi così estremi, quasi metafisici. Sembra di essere in uno sperduto villaggio messicano, sono location astratte e fuori dal tempo che contribuiscono alla fascinazione del film.

Abbiamo girato a Castel Voltuno, al Villaggio Coppola, un villaggio costruito negli anni ’70 per gli americani della base Nato, allora era un parco meraviglioso, con la spiaggia. Chi è cresciuto qui ha avuto un’infanzia dorata. Poi gli americani si sono spostati e quel luogo è caduto in una inevitabile depressione. L’Ho scoperto già con L’imbalsamatore e Gomorra. Ha una componente metafisica, sospesa, una luce che contribuisce a renderlo astratto. È un luogo che mi vuole bene, per me è come avere un set quasi pronto.

Cosa pensa del divieto ai minori di 14 anni imposto al film?

Penso che potrebbe anche essere giusto.

Qual è lo spettatore ideale di Dogman?

Chi non ne sa nulla, chi arriva candido alla visione, senza conoscere la vicenda del Canaro.

Come affronta il concorso di Cannes per la quarta volta?

E’ sempre una grande occasione, ma siamo sereni, pensiamo di aver fatto un buon lavoro. 

E il nuovo progetto su Pinocchio a che punto è?

Pinocchio, si sa che è il progetto per finire la carriera cinematografica, la cosa più autolesionistica che si può fare. Corre sempre Pinocchio e io gli corro dietro…

Cristiana Paternò
17 Maggio 2018

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