Nazzaro: “L’assenza delle donne è un problema del cinema americano”

Terzo anno per il delegato generale della SIC, Giona A. Nazzaro, a cui abbiamo chiesto un bilancio di questa edizione e una riflessione sui temi centrali del festival


VENEZIA – Terzo anno per il delegato generale della Settimana Internazionale della Critica, Giona A. Nazzaro, affiancato dai selezionatori Luigi Abiusi, Alberto Anile, Beatrice Fiorentino e Massimo Tria nel difficile ma appassionante compito di scoprire nuovi talenti del cinema mondiale nella sezione gestita dal Sncci. A vincere il Premio del pubblico Sun Film Group di questa 33esima edizione è stato il siriano Still Recording di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub Saeed – un documento storico e visivo ottenuto da centinaia di ore di girato che racconta la guerra in Siria nei suoi aspetti più scandalosamente quotidiani – che ha ottenuto anche il Premio Mario Serandrei – Hotel Saturnia per il Miglior Contributo Tecnico; premiato anche Bêtes blondes di Alexia Walther e Maxime Matray.

“Una selezione che porta nel proprio DNA il desiderio del futuro, il piacere della diversità e la ricerca di sguardi nuovi, una selezione che, nel momento in cui la politica chiude le porte, rossellinianamente vuole aprire tutte le finestre, invitando a ragionare sulle contraddizioni del tempo presente e a lavorare per un cinema non conciliato”, commenta Nazzaro a bocce ferme. Cinecittà News l’ha intervistato per fare un bilancio di questo primo triennio di intenso lavoro.

Spesso si dice che un programmatore deve fare i conti con ciò che offre il cinema mondiale in un dato momento. Gillo Pontecorvo, direttore della Mostra di Venezia, diceva che fare un festival è come andare a funghi. Lo pensa anche lei?

Non credo in questa teoria, certo molto diffusa, perché quello che c’è si modifica in base a ciò che si cerca. Anni fa sognavo uno zombie horror firmato da una regista africana, lo dicevo scherzando, come paradosso, invece mi sono trovato davvero di fronte a un horror tunisino, sia pure girato da un uomo, che parla della rivoluzione incompleta in Tunisia. Di base mi piacciono poche cose: Stanlio e Ollio, Rossellini, John Ford, Dino Risi, sono alcune di queste cose. Ma quando faccio la selezione mi lascio alle spalle tutto ciò che mi conforta, i miei gusti personali e il già noto per aprirmi veramente alle scoperte.

Cosa può dirci di Still Recording?

Sono tre anni che bracco quel film, di cui ho visto sei versioni diverse. Ho scritto anche una lettera di ‘raccomandazioni’ per loro perché potessero chiedere finanziamenti per andare avanti col progetto. Noi della Sic non facciamo la selezione in tre settimane, ci lavoriamo un anno intero. È come curare una mostra d’arte.

Ha sottolineato anche un aspetto politico del vostro lavoro.

Mentre facevamo la selezione abbiamo visto restringersi i confini dei paesi, ci sono stati i respingimenti in mare… Mi auguro che la nostra selezione possa dare degli indizi su come abbiamo noi tutti vissuto quegli eventi e come abbiamo reagito. Il poetico è sempre politico.

Prosegue l’esperienza dei cortometraggi italiani di Sic@Sic portata avanti insieme a Istituto Luce Cinecittà. Che valutazione ne dà?

E’ un vivaio di talenti, e spesso di talenti femminili. Il cinema italiano, per una questione strutturale, sovente manca di generosità, invece Sic@Sic dà delle possibilità a giovani autori in tempo reale. Letizia Lamartire, dopo aver presentato un corto in questa cornice, è tornata da noi con Saremo giovani e bellissimi. Tra l’altro le ragazze tra le autrici di cortometraggi sono la stragrande maggioranza. Ci sono tante giovani cineaste che hanno una singolarità di sguardo e di approccio, più dei ragazzi, spesso chiusi nelle mitologie maschili, alla Quentin Tarantino. Le ragazze viaggiano con un bagaglio leggero, non sono dogmatiche. Cito Chiara Leonardi, Rossella Inglese, Valentina Pedicini…

Ho notato, quest’anno più che mai, uno squilibrio di attenzione mediatica tra le varie sezioni. Un concorso molto forte e con film, tra le altre cose, di durata monstre, sembra aver fagocitato tutto il resto: Settimana della Critica, Giornate degli Autori, ma anche lo stesso Orizzonti. E poi c’è lo squilibrio tra cinema del primo mondo e Asia e Africa.

Lo squilibrio è strutturale. Da un lato un festival come Venezia deve avere un dialogo forte, da interlocutore privilegiato con il sistema industriale americano, dall’altro la Mostra dialoga con le altre cinematografie con le iniziative che attraggono gli operatori economici come Venice Production Bridge. Rimane aperta la questione della programmazione. La stampa quotidiana ma anche i blogger e i periodici, danno visibilità a ciò che è già visibile. Non si può rimproverare Venezia di calare l’asso A Star is Born, che tra l’altro è un ottimo film, semmai è responsabilità di chi racconta la Mostra sui media articolare diversamente il discorso. Se Owen Gleiberman su ‘Variety’ dice che Cannes perde potere d’acquisto perché non ci sono abbastanza blockbuster americani, fa un discorso datato sul cinema del resto del mondo. Se ho il film dei Coen nello stesso giorno di un film che viene da un’altra parte del mondo e i giornali parlano solo dei Coen abbiamo un problema. Così anche Orizzonti rischia la sparizione. Gian Luigi Rondi inaugurava la Mostra con De Oliveira. Ma i tempi sono cambiati, basti pensare come è stato maltrattato in concorso Spira Mirabilis.

Tornando alla presenza femminile, dal suo osservatorio privilegiato come vede il cinema delle donne?

Proprio nelle parti del mondo dove non te lo aspetteresti, come il Medio Oriente o il Nordafrica, le donne hanno accesso alla produzione e alla realizzazione, gestiscono laboratori, sono produttrici e sceneggiatrici. Se metti insieme tutte le donne che lavorano negli Stati Uniti e le confronti con le donne del Medio Oriente e del Maghreb ti rendi conto che il problema è essenzialmente americano. L’assenza delle donne dal concorso è l’assenza delle donne dal cinema di Hollywood. Chi ha fatto notare questa carenza ha ragione da vendere. Les bienheureux di Sofia Djama, premiato a Orizzonti l’anno scorso, è un esempio di un film che poteva benissimo essere in concorso. Il punto però è che se Cannes mette in concorso un’opera prima di un regista egiziano, ‘Le Monde’ ne parla, mentre se noi mettiamo in concorso un film algerino, i giornali praticamente lo ignorano. 

Cristiana Paternò
10 Settembre 2018

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