Golino: “Mi piace sollevare dubbi su cui non ho risposte”

Secondo film da regista per Valeria Golino che in Euforia torna ad affrontare l’ombra della malattia e della perdita attraverso la storia di due fratelli, Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea


Secondo film da regista per Valeria Golino che torna ad affrontare l’ombra della malattia e della perdita in Euforia, presentato quest’anno a Cannes, in Un Certain Regard (leggi il nostro articolo), e in sala con 01 dal 25 ottobre. Lo fa attraverso la storia di due fratelli le cui reciproche certezze entrano in crisi quando uno scopre che l’altro è malato e decide di nascondergli la verità. Due persone all’apparenza lontanissime: l’uno, Matteo, è un giovane imprenditore di successo, spregiudicato, narcisista. Interpretato da un bravo Riccardo Scamarcio mai sopra le righe nel ruolo di un gay esuberante e perennemente in bilico tra altruismo ed egoismo, Matteo coltiva la distrazione dalle emozioni attraverso il denaro, la droga, il sesso e un culto ossessivo del corpo. Suo fratello Ettore (Valerio Mastandrea), insegnante, è un uomo cauto, integro, che per non sbagliare si è sempre tenuto nell’ombra, nascondendo i propri fallimenti e la propria insoddisfazione dietro una maschera di disillusione e sarcasmo. Così Matteo, che nella vita crede di avere gli strumenti per fare e vincere tutto, nel momento in cui si presenta un blocco nella relazione più forte che ha, quella con il fratello, cerca di negare e affrontate tutti i fatti della vita con il controllo cui è abituato. Ettore sceglie invece di lasciarsi andare, di farsi guidare, di credere al fratello e alla sua attitudine a pensare di poter vincere ogni cosa. Nella malattia, che è il luogo dell’umana caducità e fragilità, si spogliano ed affrontano reciproci dolori e profondità emotive, provando quell’euforia del titolo, che non è gioia ma piuttosto consapevolezza, una sorta di schermo che inquadra finalmente le ansie che li turbano e le paure che nascondono.

C’è un ragionamento sulla morte che unisce, in maniera speculare, il suo film d’esordio Miele ad Euforia.
Vero. Non ho fatto però un ragionamento razionale a priori, al massimo è stato qualcosa di inconscio. Se devo raccontare l’esistenziale nel mondo di oggi, in cui tutto è effimero, vado a cercare le uniche cose che sono rimaste intoccabili, e in questo senso la morte ne è la regina assoluta.

Sembra essere anche particolarmente attratta dai dilemmi etici, il fine vita in Miele, il diritto alla bugia in Euforia.
Mi interessa l’etica del quotidiano e i dubbi delle nostre piccole vite di ogni giorno. Vale la pena raccontare storie cercando di porsi domande. Mi interessa il dubbio etico che mette in crisi, che sposta la coscienza, che spinge ad aderire anche al punto di vista dell’altro, a comprenderne l’errore, a capire la possibilità di essere magnanimi e al tempo stesso ridicoli nel modo in cui si sbaglia. Trovo molto difficile descrivere l’adesso, e cerco di trascendere dai semplici fatti per raccontare qualcosa di cui non ho risposte.

Il personaggio interpretato da Riccardo Scamarcio è un bulimico della vita, un uomo spregiudicato ma anche pieno di umanità e fragilità, che fatica ad entrare in contatto con le emozioni più profonde e con il dolore. Da dove nasce?
Molti dei fatti e degli avvenimenti sono racconti di un caro amico, a cui è ispirato il personaggio di Riccardo Scamarcio. Aveva fatto appena una delle sue gesta ridicole e magnifiche, un atto di pietà magnanimo e incongruo che mi è sembrato lo spunto ideale per una storia, su cui ho poi lavorato, con cautela e cercando di allontanarmi dalla vicenda privata.

C’è sempre un elemento autobiografico nelle storie che mette in scena?
Nei film che dirigo racconto la mia storia, e anche le storie sentite da tutte le persone che mi circondano, con cui converso, che mi parlano. Credo sia inevitabile fare autobiografia nella narrazione. Ci sono, poi, vari modi per farlo, nel mio caso sono autobiografie indirette in cui l’aspetto personale non è così evidente a prima vista.

Ha escluso di mettersi in gioco anche come attrice in un film di cui firma la regia?
In entrambi i miei film c’erano ruoli che mi sarebbe piaciuto interpretare, ma con un altro regista. Fare l’attrice è il piacere di essere guardati da un’altra persona, da qualcuno che ti idealizza, ti mistifica o giudica, ma comunque ti leva da te stessa. Non sono contraria in assoluto all’interpretare un mio film e non so se lo farò in futuro, ma, da regista, guardare me stessa mi interessa meno che guardare le altre interpreti in scena.

In entrambi i suoi film c’è un lavoro accurato sull’immagine, sui colori, sulle forme, sulle atmosfere. Come ha ricercato l’estetica di Miele e di Euforia? 
Miele era un film più univoco a livello di contenuti, ed è stato possibile sperimentare un tipo di estetica che, forse, mi appartiene maggiormente nel gusto. Era un film più rarefatto, e l’estetica poteva essere più obliqua e sperimentale, in un certo senso più facile da realizzare. Questo film è stato più difficile perché mischia continuamente una serie di toni: aspira a parlare di qualcosa di grave facendo a tratti anche ridere. Richiede un’atmosfera per un verso metafisica per un altro più convenzionale, perché  per far arrivare allo spettatore l’aspetto comico occorre rimanere semplici e far  rientrare anche l’estetica in una convenzione.

Carmen Diotaiuti
16 Ottobre 2018

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