Giovanna Gagliardo: “Libia, l’altra sponda del Mediterraneo”

Tripoli è un luogo della mente nel documentario di Giovanna Gagliardo, Il mare della nostra storia, presentato alla Festa di Roma in Riflessi


Tripoli è un luogo della mente nel documentario di Giovanna Gagliardo, Il mare della nostra storia, prodotto e distribuito da Istituto Luce Cinecittà, presentato alla Festa di Roma in Riflessi. Tutto esaurito in sala e grande emozione per questo viaggio che parte dal passato coloniale dell’Italia per arrivare a un presente in cui la Libia è legata alle cronache delle migrazioni ma conserva, nella memoria degli italiani che qui sono nati, un colore indelebile di seduzione: “Tripoli bel suol d’amore” e “Tripoli 1969” di Paolo Conte cantata da Patty Pravo incorniciano la cartolina che la regista di Maternale e Bellissime ha realizzato con materiali audiovisivi rari e preziosi di Luce Cinecittà (ma anche di Rti Mediaset e Rai Teche per le immagini più recenti) e materiali fotografici che spaziano dalle numerose collezioni private alla Società Geografica Italiana.e all’archivio de La Stampa. Ma anche raccogliendo tante testimonianze, tra l’altro di Marina Cicogna, Annamaria Cancellieri, Cesare Romiti, David Zard, Claudia e Iris Fellus. E poi con una sequenza del film Il leone del deserto, voluto da Gheddafi nel 1981 e mai distribuito in Italia (ma passato in tv nel 2009), perché ritenuto insultante, un’epopea con supercast (Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Gastone Moschin, Irene Papas) sulle gesta del ribelle libico Omar Al Mukhtar, che si battè contro gli invasori fascisti e venne giustiziato.  

Il mare della nostra storia, che sarà in dvd a inizio 2019 oltre che in alcune proiezioni evento, si muove tra due date attraverso un secolo: il 5 ottobre del 1911 la Regia Marina Italiana impone la resa alla guarnigione turca di Tripoli e occupa la città; il 20 ottobre 2011 a Sirte viene catturato e ucciso Gheddafi. Il mezzo l’arrivo di ventimila coloni, agricoltori poveri del Nord, che vengono mandati a coltivare la “quarta sponda” del Mediterraneo per volere di Mussolini. E poi il protettorato inglese nel ’51, lo sfruttamento del petrolio, la cacciata degli ebrei tripolini in seguito alla Guerra dei sei giorni (1967), l’avvento di Gheddafi e la confisca dei beni degli italiani nel 1970, gli accordi con la Fiat, i rapporti amichevoli tra il rais e Berlusconi. “Se la Storia la scrivono i vincitori, la memoria appartiene a tutti”, chiosa Giovanna Gagliardo, citando lo storico Edward Gibbon.  

Come mai ha scelto di occuparsi della Libia, proprio in questi tempi in cui il tema delle migrazioni è tornato drammaticamente d’attualità?

Che l’abbia fatto adesso è un caso, questo è un progetto meditato e fatto di tanti incontri sedimentati nel tempo. L’amica nata a Tripoli, i tanti racconti ascoltati, che si intrecciano alle cose lette nei libri e viste in tv, la canzone di Paolo Conte che amo molto. Ho scoperto che per trent’anni gli italiani nati in Libia non sono potuti tornare a casa perché Gheddafi lo impediva ma di lui avevamo bisogno e quindi nessuno aveva da ridire. Ho così pensato di guardare nell’Archivio Luce e ho trovato tanto materiale meraviglioso e conservato benissimo. Immagini inedite, molto materiale del muto che ho sonorizzato: le navi, i treni, la cavalleria nel deserto, le saline, il tabacco…

Tra gli incontri con ex tripolini anche quello con Valentino Parlato, che purtroppo non è nel film.

Ho scoperto che Valentino Parlato era nato a Tripoli nel ’31, figlio di un gerarca che lavorava con Balbo, ed era vissuto li fino al ’51. Ne abbiamo parlato e mi apprestavo a registrare l’intervista ma purtroppo all’improvviso è venuto a mancare. Mi raccontò di essere stato ricevuto nella tenda da Gheddafi, che aveva voluto incontrare un giornalista che dirigeva un giornale comunista ed era stato espulso dagli inglesi nel ’51.

Il colonialismo, non solo italiano, ha prodotto orrori di cui ancora vengono pagate le conseguenze. E tuttavia nella memoria degli italiani d’Africa rimane una coloritura affettuosa, direi nostalgica. Le sembra una contraddizione?

Nelle colonie inglesi o francesi questo atteggiamento, tipicamente italiano, sarebbe stato impensabile, noi invece abbiamo un’attrazione fatale per Tripoli, città che è stata molto italiana con un Lungomare Volpi, alberghi che ricordavano il Lido di Venezia. E’ stata così fino al ’70, quando Gheddafi ha cancellato tutto. Era un posto di sogno, un luogo di villeggiatura, dove circolavano tanti soldi. Lo è stata anche nel dopoguerra quando è iniziata l’era del petrolio. Dunque sì, in alcuni c’è nostalgia verso un mondo che non c’è più e non ci sarà mai più.

Ha concluso il film con la presenza della fotografa Hiba Shalabi che attraverso il suo lavoro cerca di recuperare dal degrado e dall’incuria la città vecchia di Tripoli.

Mi sembrava giusto passare il testimone ai tripolini e in particolare a una donna araba, velata, che ci racconta la storia per esempio della Fontana della Gazzella dove è stata rimossa la statua della ragazza nuda. Adesso la Libia sono loro.

Perché la scelta di tenere fuori il capitolo delle migrazioni verso l’Europa, la Libia è oggi sponda di un Mediterraneo che è diventato tomba dei migranti contemporanei.

Questo documentario ha un senso storico e non giornalistico La questione dei barconi e delle migrazioni contemporanee attiene alla politica estera non solo italiana ma europea e sarebbe sbagliato infilare un argomento così scottante e d’attualità in un film storico come questo. Però è importante ricordare che noi stessi siamo stati migranti. Erano grandi navi e non carrette del mare quelle che portavano i contadini friulani e i pescatori siciliani in Libia, ma si è trattato comunque di una deportazione di massa. Queste famiglie andavano a coltivare e zappare il deserto, non parlavano la lingua locale, erano lontani migliaia di chilometri da casa: ventimila italiani ebbero questa sorte. Quando Gheddafi nel ’70 ha espulso gli italiani, io ero una ragazza sessantottina e femminista e non mi sono neanche accorta dei rimpatriati libici, avevamo altre cose a cui pensare e li consideravano dei fascisti. Ma persero tutto, rimasero anche senza pensione, furono messi in isolamento nei campi vicino Napoli perché c’era l’epidemia di colera. Aldo Moro, allora ministro degli Esteri, non mosse un dito per loro.

Cristiana Paternò
20 Ottobre 2018

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