Simone Aleandri: “Nano, l’artista delle star”

Dall’immediato dopoguerra agli Anni ’60, Silvano Campeggi, detto Nano, ha disegnato i manifesti degli anni d’oro del cinema americano, di cui ha ritratto i grandi divi. Da Casablanca, a Via col vento,


“Il cinema è stata la religione del ‘900 e noi eravamo come i pittori delle chiese” racconta Silvano Campeggi, in arte Nano, che nella sua vita ha disegnato oltre 3mila manifesti, viaggiando in tutto il mondo in compagnia di sua moglie Elena. L’ultimo grande illustratore del cinema, oggi un suo autoritratto si trova nella Galleria degli Uffizi, tra i maestri dell’arte italiana. Protagonista del documentario As Time Goes By di Simone Aleandri, presentato alla Festa di Roma (Riflessi), coprodotto e distribuito da Luce Cinecittà. Un film che racconta il maestro, scomparso lo scorso agosto, fino ai suoi ultimi mesi di lavoro. Un viaggio nella sua vita e nell’immaginario del ventesimo secolo, che ha attraversato con la matita in mano, lavorando incessantemente ogni giorno, fino a 95 anni.  

Dall’immediato dopoguerra agli Anni ’60, Campeggi ha disegnato i manifesti degli anni d’oro del cinema americano, di cui ha ritratto i grandi divi, motivo per cui è ricordato anche come “l’artista delle star”. Suo Casablanca, primo manifesto che illustra, seguito da Via col vento, Ben Hur, fino a West Side Story, ultimo lavoro realizzato per il cinema. Nei suoi disegni Nano Campeggi raccontava le star americane di quegli anni, divi dai volti perfetti, dal movimento giusto al momento giusto, esseri superiori a disposizione di un pubblico che li ammirava guardandoli dal basso verso l’alto. Diventò amico dei registi e degli attori, alle cui feste era sempre invitato e dove disegnava per divertirsi. Conobbe così le più importanti stelle dell’epoca, da Ava Gardner, a cui fa da accompagnatore per una sera, a Liz Taylor, a cui fa un ritratto che la colpisce tanto da spingerla a volere da quel momento solo lui per i suoi manifesti. Un personaggio straordinariamente attivo e pieno di passione. Ne parliamo con il regista Simone Aleandri.

 Da dove nasce l’idea di un documentario su Campeggi, artista prolifico ma poco conosciuto fuori da Firenze, la città natale in cui viveva?
All’inizio non lo conoscevo, una mia amica frequentava Firenze e ha cominciato a parlarmi di questa persona straordinaria. Incuriosito l’ho incontrato, all’epoca aveva 93 anni, e ho conosciuto un uomo molto attivo, che in maniera compulsiva disegnava tutti i giorni. Ho deciso così di raccontare la sua storia fatta di vitalità e passione per il suo lavoro e per Firenze, città natale dove viveva in una sorta di casa atelier. È stato uno dei più grandi illustratori del cinema classico, che ha legato il suo nome agli anni d’oro del cinema americano, di cui ha ritratto i grandi divi ed è per questo ricordato anche come “l’artista delle star”.

A cosa si riferisce il titolo As Time Goes By? 
È una citazione interna a Casablanca, esattamente è la canzone cantata dal personaggio di Sam, interpretato da Dooley Wilson. Casablanca è la prima locandina che Nano ha disegnato per le major americane, quindi è un omaggio agli inizi della sua carriera. Mi piaceva, però, anche qualcosa che si portasse dietro una considerazione sul tempo: Nano ha attraversato tutto il ‘900, ha vissuto tanto, il tempo è stato molto lungo e generoso con lui. All’inizio avevo pensato a Maestro, vuole che mi spogli?, la frase che Marilyn Monroe disse al loro primo incontro, sapendo che era arrivato un artista da Firenze per farle un ritratto. Uno dei tanti aneddoti raccontati nel documentario.

Marilyn Monroe diventa per lui un’ossessione: continua a dipingerla più volte negli anni, disegnandola quasi in serie e a volte con gli occhi azzurri. 
Marilyn l’ha conosciuta personalmente a Los Angeles, dove era stato mandato in occasione dell’uscita de Il Principe e la ballerina perché la produzione voleva un ritratto dal vivo della diva. Qualcosa di diverso dal solito processo di lavorazione: abitualmente vedeva il film a Roma, in inglese, insieme ai responsabili della produzione lasciandosi suggestionare solo dalle immagini sullo schermo e portando con sé qualche foto di scena. Dopo quell’incontro Marilyn Monroe è diventata per lui un’ossessione che non l’ha più abbandonato, ha continuato a disegnarla fino alla fine, anche con tratti che nel tempo si sono modificati. 

Un’altra sua passione sono i cavalli di cui ferma ossessivamente il movimento e che disegna per la prima volta per Ben Hur, oggi uno dei manifesti più conosciuti.   
I cavalli nascono dall’esperienza, anche quella inusuale, che ha avuto per Ben Hur, girato a Cinecittà dove viene invitato mentre si girava la scena della corsa delle bighe. L’immagine dei quattro cavalli bianchi su fondo rosso che crea, diventa il manifesto di quella che viene raccontata come la Hollywood sul Tevere. Quei cavalli in primo piano erano qualcosa che andava contro gli stilemi dell’epoca, la major volevano valorizzare i divi, i grandi nomi su cui avevano investito. Ma il manifesto piace talmente che sarà quello realizzato ed esportato anche all’estero. Questa ossessione per i cavalli non l’ha mai abbandonato, ha continuato a dipingerli anche dopo che ha smesso di lavorare per il cinema.  

Campeggi disegnava nei suoi manifesti le star come esseri superiori a disposizione di un pubblico che li ammirava guardandoli dal basso verso l’alto. Un tipo di divismo che oggi è completamente scomparso. 
All’epoca il contesto storico era diverso, il cinema era evasione e portava le persone di quegli anni in contatto con qualcosa per loro inimmaginabile. I divi dovevano avere pose perfette, essere anche più belli di quanto fossero in realtà, divinità quasi irraggiungibili, che metteva al cento dell’immagine su un fondo di colore unico, spesso rosso, per farli meglio risaltare. Quei manifesti, che avevano una grandezza diversa da quella che siamo abituati a vedere oggi – arrivavano ad occupare fino a dodici fogli – servivano a coprire la tragedia della guerra che aveva lasciato l’Italia distrutta.

I primi anni del cinema e la storia d’Italia dell’epoca sono raccontatati attraverso l’uso di materiali dell’Archivio Luce. Ci racconta meglio questa scelta stilistica?
Nano ha attraversato il ‘900 e perciò ho voluto puntellare la narrazione di fatti storici che hanno a che fare con la crescita dell’artista e le sue vicende. A partire dalla Firenze in cui nasce negli Anni ‘20, un posto quasi onirico, una città che si muoveva ancora sulle carrozze. Sempre con i materiali d’Archivio, ho raccontato poi la liberazione della città da parte egli americani, immagini di repertorio molto belle e poco conosciute. Quello è il periodo in cui Nano inizia la sua carriera di ritrattista, disegnando i soldati che stavano nel convalescenziario a piazza San Marco. Così, sempre attraverso immagini storiche, ho raccontato il periodo in cui arriva a Roma e inizia a lavorare per le major, e l’alluvione di Firenze, che si portò via molte delle opere che aveva realizzato fino a quel momento. 

Peculiare la scelta della giovane voce narrante. 
Ho scelto di usare una voce giovane, perché Nano ha sempre detto del suo lavoro che è stato un gioco, un gioco serio come quello dei bambini. Mi piaceva che il racconto fosse sostenuto da una voce giovane, fresca, come poteva essere la sua quando disegnava le locandine all’epoca.

Il film evidenzia anche un rapporto profondo con la moglie, che sembra quasi uscito da un romanzo rosa. 
Nel film c’è la parte del Nano artista, ma l’unica intervista è quella alla moglie Elena: come spesso accade dietro a un grande uomo c’è una grande donna. Ho cercato una sovrapposizione tra il cinema di quegli anni e la loro storia d’amore che nasce quando Elena, ragazzina, lo vede sulle pagine di un fotoromanzo e fa di tutto per incontralo. Lei era ancora un’adolescente mentre lui già un artista, che inizia a farle una serie di ritratti.  Una storia molto intensa che dura più di sessanta anni, che si alimenta giorno dopo giorno, fatta di amore ma anche di passione e gelosia.

Carmen Diotaiuti
24 Ottobre 2018

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