Iosseliani: “Il mercato è peggio della censura”

Abbiamo intervistato il maestro georgiano alla 50° Mostra di Pesaro, dove ha tenuto una lezione di cinema. "Non tornerò a lavorare in Georgia, non voglio togliere finanziamenti ai giovani autori"


“Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna”. E’ cominciata così, con una certa autoironia, la lezione che Otar Iosseliani ha tenuto alla 50° Mostra di Pesaro. Veniva riproposto il suo C’era una volta un merlo canterino (1970) nella sezione dedicata alle straordinarie scoperte che questo festival ha compiuto in 49 anni di vita e l’ottantenne Iosseliani ha accettato di tenere una masterclass in cui mostrare una certa amarezza per la “tragica caduta di qualità e mancanza di pensiero del cinema contemporaneo in un mestiere che sta diventando sempre più piatto e pieno di cliché”. Per contrastare la noia del mercato, lui si è messo alla lavagna e ha disegnato storyboard cercando di trasmettere la sua visione pura. “Il cinema è nato come fotografia muta e il pubblico tratteneva il respiro per guardare. Oggi si usa la musica dall’inizio alla fine per smuovere le emozioni. Hanno inventato il colore, il 3D, presto avremo anche l’odorama. Ma il cinema è ormai un mezzo per arricchire i commercianti”. Nel suo ultimo lavoro, Chantrapas del 2010, il maestro di opere come I favoriti della luna e Caccia alle farfalle sceglie in qualche modo un percorso autobiografico, nella storia di un regista censurato in Georgia che emigra in Francia ma non trova certo il paese della libertà.

Quanto il mercato condiziona il lavoro dell’artista?
Giotto, Piero della Francesca, Raffaello e Leonardo non avevano certo un sistema che mettesse fretta alla loro arte, mentre il capitalismo ci obbliga a essere molto concentrati perché un film costa caro. Pensate se la tela o i colori costassero milioni di euro, sarebbe difficile allora per Manet fare l’Olympia. I veri autori non diventano mai ricchi, perché ci si arricchisce col cattivo cinema. Ma i commercianti hanno ormai deformato il pubblico e l’hanno abituato a mangiare i maccheroni che gli propongono ogni giorno. La Mostra di Pesaro difende il vero cinema da 50 anni. Ma il pubblico allevato da Hollywood è abituato allo schema banale ripetuto da un film all’altro, in cui il male è sempre sconfitto dal bene, proprio l’opposto di quello che accade nella realtà.

Pensa che in qualche modo il sistema capitalista sia peggiore della censura?
La censura è un metodo antico che può servire qualsiasi dogma politico: la repubblica, la monarchia, il totalitarismo, perfino la democrazia. Gli ateniesi non sopportavano Socrate con i suoi sofismi e i suoi paradossi, lui detestava la democrazia perché diceva che la folla degli idioti non può dirigere un paese e che neppure un singolo uomo, Pericle, può farlo. Così, alla fine, l’hanno condannato a bere la cicuta. Veleno che ha bevuto con grande piacere. L’ultima frase che ha pronunciato è stata questa: “io bevo ma voi restate qui, io resterò per l’eternità e voi no”.

Lei è incappato spesso nelle maglie della censura sovietica, tanto da decidere di lasciare l’Urss nel 1982, dopo l’ostracismo toccato a “Pastorale”.

La censura è un metodo che non bisogna mai attaccare frontalmente, bisogna comprenderla. I censori sono esseri umani, gravati dalle responsabilità. Io considero la censura come un fenomeno naturale: se piove, bisogna prendere l’ombrello, quindi bisogna trovare il metodo per cercare di fare quello che vuoi. Ad esempio io giravo i miei film molto velocemente, e poiché i censori per arrivare da Mosca impiegavano almeno due mesi, quando arrivavano trovano il film quasi finito. Per questo ho cominciato a disegnare tutte le scene, una per una. A volte la censura può essere utile perché fa venire voglia di lottare per qualcosa. Peggio della censura è la moda, il gusto della folla. In questo caso non si può far nulla. Tonino Guerra mi chiamò un giorno e mi disse che Ginger e Fred di Fellini non piaceva al pubblico. E io dissi: Sai che notizia! Perché E la nave va oppure 8 ½ erano piaciuti? Comunque chiamai Federico e gli dissi che avevo visto il suo film a Parigi e che lo trovavo bellissimo. In Italia lo detestano? Meglio per te e peggio per l’Italia. E Federico mi rispose: forse hai ragione perché nonostante il mio film non piaccia, a Roma ci sono due persone che la gente vuole vedere, il Papa e Fellini.

Tra i fattori di corruzione del gusto lei cita l’uso del sonoro, nel suo cinema c’è sempre una nostalgia del cinema muto.
Io non detesto il cinema sonoro, ma quello parlato e accompagnato dalla musica dall’inizio alla fine, come accade praticamente in tutti i film americani e spesso anche in quelli francesi e italiani. Ho fatto un film in Africa, Un incendio visto da lontano, che è parlato in una lingua per noi incomprensibile. Ho fatto un altro film in Georgia, Pastorale, in cui si parla un dialetto che quasi nessuno, neanche tra i georgiani, capisce. È la melodia della lingua che mi interessa, tutto deve essere comprensibile senza le parole, attraverso i gesti e la messinscena. La parola pronunciata è menzogna, non trasmette mai il vero pensiero.  

Cosa pensa della nuova legge russa sulla censura, che proibisce l’uso delle parolacce nei film e negli spettacoli.

Il regime è debole e basato su un’isteria dilagante. Tutti i media sono in mano a questa banda di politici che dirigono il paese e occupano la Russia come un tempo hanno fatto lo zarismo e il bolscevismo e oggi fa il “putinismo”. Mi dispiace per i russi.

Tornerebbe a girare un film in Georgia, paese che sta vivendo una nuova primavera con la nascita di autori interessanti?

Gli argomenti che interessano l’attuale generazione di cineasti non sono metafisici, si tratta piuttosto di storie di vita quotidiana. Questo genere di cinema non è nella mia natura. Oggi in Georgia le cose funzionano bene perché il cinema non costa caro e si possono produrre film con un budget di circa 700mila euro, mentre in Europa attualmente ci vogliono almeno tre milioni di euro ed è sempre più difficile raccogliere queste somme. Ma io non posso permettermi di andare in Georgia e prendere il denaro che potrebbe essere utile ai giovani autori, non sarebbe morale.

Cristiana Paternò
04 Luglio 2014

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