Verdone: “Il mio lavoro? Un antidepressivo per il pubblico”

L'attore e regista ha ricevuto il Premio Bresson dalle mani del vescovo di Parma: "Lo dedico a mio padre Mario e a Sergio Leone"


VENEZIA – Carlo Verdone emozionato, quasi commosso, ma sempre ironico. Nel ricevere il Premio Bresson dalle mani del vescovo di Parma, Mons. Enrico Solmi, ricorda più volte suo padre Mario, grande critico di cinema: “Mi chiedo se merito questo premio: ci sono autori più profondi di me, più spirituali, la commedia ti limita anche se può succedere, a volte, che sia in grado di raccontare un dramma meglio di un film drammatico. Resta il fatto che assegnarmi questo riconoscimento – e lo posso dire anche a nome dei colleghi che come me fanno commedie – sia un gesto d’avanguardia”. E quando sta quasi per andare via, assediato da tanti fans, aggiunge: “Il mio cinema è un antidepressivo per il pubblico. Vi ringrazio a nome di tutti quelli che fanno commedie, a volte ci sentiamo messi un po’ da parte”.

E’ un gran momento per lui. Ieri sera aveva ricevuto un doppio Premio Kineo come miglior film e miglior regista per Sotto una buona stella, ora arriva questo prestigioso riconoscimento che viene assegnato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e da La Rivista del Cinematografo, in accordo con il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e il Pontificio Consiglio della Cultura, al regista che abbia dato una testimonianza significativa sulla ricerca del significato spirituale dell’esistenza. Un premio che, in 15 anni, è andato a maestri come Manoel de Oliveira e Wim Wenders. E fino ad ora solo a un altro italiano, Giuseppe Tornatore. Ma c’è di più, Verdone è il primo regista di commedia a cui viene assegnato. Quasi una rivoluzione. “Mio padre sarebbe stato davvero contento, perché penserebbe che suo figlio ce l’ha fatta. Questo è un riconoscimento enorme, che dedico con tutto il mio cuore a lui, uomo che ci ha spinto a studiare, a conoscere il bello”. E proprio ripensando al padre, svela un buffo retroscena, quasi una premonizione: “Stiamo ancora mettendo a posto la sua enorme biblioteca, trasferita nella casa di campagna, qualcosa come 18.000 volumi divisi per argomenti e autori… Qualche settimana fa, insieme a mio figlio e a mio fratello Luca, ci troviamo di fronte alla sezione del cinema francese. Dopo un po’ arriviamo ai volumi su Bresson, talmente tanti, una sessantina, che mi lascio andare a una sciagurata frase: ‘Luca, buttiamoli ‘sti Bresson, so’ talmente tanti’. E lui, ‘Non si può! Li ha scritti papà!’ Ecco, dopo un paio di giorni mi chiamano per dirmi che ho vinto proprio il premio intitolato a Bresson. Allora ho pensato che era rimasto contento…”.

E’ proprio il suo amore per la famiglia, di cui mostra spesso le difficoltà contemporanee, ad aver colpito i promotori del premio. Così il vescovo di Parma “rilegge” il regista alla luce del suo libro autobiografico “La casa sopra i portici”, mentre don Ivan Maffeis, il direttore della Rivista del Cinematografo, aggiunge: “Ci ha fatto capire che un benessere fine a se stesso è inutile”. Per il presidente della Biennale, Paolo Baratta, Verdone è “interprete del proprio paese”, per il direttore della Mostra Alberto Barbera, “un uomo che pur godendo di un enorme popolarità non ha mai ceduto agli effetti negativi della fama, rimanendo sempre affabile e disponibile”. Barbera racconta che voleva Verdone in giuria già due anni fa: “Gli avevamo proposto di farne parte, ma aveva declinato perché era sul set di Paolo Sorrentino con La grande bellezza“.

Verdone dedica il premio a papà Mario, ma anche a Sergio Leone – “un uomo che mi ha capito, senza di lui non sarei qui” – al regista Franco Rossetti – “il primo a prendermi come assistente alla regia, dopo il Centro Sperimentale avevo avuto tante porte in faccia…” – a Felice Colaiacomo di Medusa “che tirò fuori i soldi per Un sacco bello“. Del padre, che fu suo professore all’università, racconta di quella volta che lo bocciò. “Mi interrogò su Pabst anche se sapeva che avevo preparato Fellini”. Sul suo prossimo film non si sbilancia: “Ho già un’idea sul nuovo progetto, di sicuro vorrei fare un’opera corale, perché ho un’età in cui è importante confrontarsi con i giovani, e parlerò di un argomento che nessuno ha ancora trattato. Ma prima di tutto aspetto di sapere se il mio produttore è veramente convinto, perché altrimenti nasce sempre qualche difficoltà sul set”. Infine qualche spunto sul suo lavoro di giurato a Venezia 71. Tra i film italiani c’è qualcosa che l’ha convinto. “Ma devo ancora vedere il film di Martone e tanti altri film. Il bello è che andando avanti scopri un film che è più importante di quello che hai visto e ‘scavalla’, magari tutti sono d’accordo su uno e improvvisamente arriva come outsider e bam! Ci ricambia le idee… Questo è il divertente, però anche il delicato, quindi bisogna ragionare con molta ponderatezza, perché dobbiamo aiutare il talento vero. Gli autori hanno lavorato tanto, bisogna fare le cose bene o perlomeno onestamente”. Più in generale sul lavoro e l’atmosfera in giuria, dice che “è un ruolo molto molto duro, perché la giuria è inflessibile, ognuno ha le proprie idee e le porta avanti, però è anche interessante ascoltare i pareri di chi è in disaccordo con te perché ti aiuta ad aprire un po’ la mente, o riflettere su una critica dell’opera che stai vedendo: forse ti era sfuggita una cosa, e quello te la fa notare, oppure sta dicendo una sciocchezza e allora tu controbatti. Insomma questo contraddittorio è molto positivo, però è una giuria molto intellettuale e sarà molto difficile, anche se alla fine arriveremo, per forza di cose, a scegliere sicuramente il miglior film, i migliori talenti”.

Cristiana Paternò
01 Settembre 2014

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