Il sogno a occhi aperti? Fino a qui, tutto bene

Parecchi orgogli italiani tra i premiati alla nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Tra loro Andrea Di Stefano, esordiente con Escobar, e il loquace Roan Johnson


Parecchi italiani tra i premiati alla nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Ci sono Gaetano Di Vaio con il suo documentario Largo Baracche (riconoscimento DOC/IT al miglior documentario italiano), dedicato alle vite di sette ragazzi dei Quartieri Spagnoli, Francesco G. Raganato con Looking for Kadija (Premio del Pubblico Cinema Italia), Andrea Di Stefano (Premio TAODUE Camera d’oro alla miglior opera prima), esordiente con Escobar: Paradise Lost, interpretato nientemeno che da Benicio Del Toro, e Roan Johnson con la sua opera seconda, Fino a qui tutto bene, che ha vinto il Premio del Pubblico BNL Cinema Italia, oltre a una copiosa serie di premi collaterali. Loquace e comunicativo, il regista toscano ha fatto da ‘mattatore’ della serata raccontando la genesi del suo progetto: “Tutto è nato – racconta – quando l’Università di Pisa mi ha commissionato una serie di interviste a degli studenti. Ne era uscito un quadro positivo, con un’energia che puoi avere solo a 22 anni. Dicevano: “lo so che c’è la crisi e non sarà facile, ma io non mi difenderò, punterò più in alto, a fare quello che mi appassiona. Non mi arrendo. Poi le abbiamo proiettate e le reazioni sono state positive, per cui all’università si sono gasati e mi hanno chiesto un vero documentario, mettendosi anche a disposizione con i loro contatti. La verità è che però io il documentario non ce l’avevo, non avevo il tema, né un personaggio da seguire giorno e notte. L’idea è stata della mia ragazza Ottavia, sceneggiatrice del film: mettiamo cinque ragazzi nella casa studentesca che devono lasciare dopo la laurea, e raccontiamo il loro ultimo week-end. Lunghi scazzi e brevi amplessi. Ho pensato subito fosse un’ottima idea per un film low budget. Lo abbiamo scritto e mi piaceva. Io sono sempre stato un sognatore a occhi aperti, essendo figlio unico, e per questo ho preso un sacco di mazzate. Mi dicevo: magari mi illudo. E poi abbiamo fatto i casting: e funzionavano. E continuavo a dirmi ‘allora forse funziona anche il film’. E poi via sul set, come un’armata Brancaleone, con attori formidabili che per mia fortuna non erano ancora delle star. Come Alessio Vassallo, che ha fatto Il giovane Montalbano. Gli ho detto che avrebbe dormito e mangiato in casa con gli altri compagni e mi ha detto che era un’idea fantastica per creare il gruppo. La realtà è che non avevo i soldi per gli hotel. E intanto i tasselli prendevano forma, ed è arrivata la distribuzione. E io mi dicevo ‘certo che il film potrebbe anche andare a un Festival e vincere un premio’, e poi ‘no, stà bonino, un ci pensare…che pigli la mazzata’. Stasera siamo qui, e il mio prossimo step non ve lo racconto perché ho ancora paura che la mazzata arrivi”.

Di Stefano, che ha lavorato con la Francia per Escobar e ha costruito all’estero la sua carriera, ci ha tenuto a sottolineare che si sente un regista Italiano: “Sono autodidatta e ho imparato tutto sui nostri set, da Blasetti a Sorrentino. Li ho amati tutti. Con l’Italia ci voglio lavorare e tra i progetti che sto preparando ce n’è almeno uno che si potrebbe realizzare qui da noi”. “Looking for Kadija – racconta Raganato – mi ha permesso attraverso un espediente documentaristico di entrare nella dimensione intima di un paese, l’Eritrea, controllato da una forte dittatura. Non è stato facile perché i visti per entrare sono arrivati all’ultimo. Quello che non immaginavo era quanto fosse controllata la stampa. Messo l’annuncio per la ricerca della protagonista, sono arrivate praticamente tutte le donne eritree comprese nella fascia di età richiesta”. Contrariamente ai premi principali, assegnati dal pubblico, il premio di Di Vaio è stato deciso da una giuria: “Sapere che il verdetto è unanime – ha commentato il regista – mi riempie d’orgoglio. Conosco i miei limiti e ne ho coscienza, non ho potuto studiare quindi imparo sul campo. E in questo la scelta del documentario mi salva, perché ho urgenza di raccontare e non posso aspettare i tempi tecnici di una fiction: scrivere una sceneggiatura, trovare i soldi… i miei ragazzi avevano bisogno di spazio immediato. Lo Stato deve capire che i giovani non sono un problema, ma una risorsa. Ma magari sono gelosi, perché lo sanno, che sono più bravi di loro”.

Chiude la conferenza il vincitore del premio più importante, Stephen Daldry col suo Trash, con protagonisti tre ragazzini delle favelas di Rio de Janeiro e due attori statunitensi: Rooney Mara e Martin Sheen: “Sono felice per me e per i due interpreti americani – ha detto il regista – ma soprattutto per questi tre ragazzini che per la prima volta hanno lasciato il loro paese e la loro comunità, sono venuti a Roma, si sono divertiti moltissimo e hanno riconosciuto il vostro affetto e calore. Potrò tornare da loro e dirgli: “Vedete? Non scherzavano mica”. Gli ho mandato un SMS, da loro è pomeriggio, non so se già sanno del premio”. Daldry ha chiuso parlando dei suoi progetti futuri: due opere teatrali a Broadway (di cui una dedicata alla Famiglia Reale Britannica) e una serie tv.

Andrea Guglielmino
25 Ottobre 2014

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