Il Nord-Est lacerato nella terra e nell’anima

Presentato a Venezia 70 nella sezione Orizzonti Piccola patria, opera prima di Alessandro Rossetto che racconta il territorio lacerato del nord-est italiano


VENEZIA – Presentato nella sezione Orizzonti Piccola patria, opera prima di Alessandro Rossetto che, a metà tra fiction e documentario, racconta il territorio del nord-est italiano. Territorio che, lungi dall’immagine collettiva di  fulcro economico del paese si presenta invece ferito e lacerato, come i personaggi che lo abitano. Lo si vede grazie alle riprese aeree che inquadrano questa terra brulla, maculata di capannoni e centri commerciali. La vicenda si snoda attraverso l’intrecciarsi delle vicende personali di due ragazze pronte a tutti pur di fuggire da quella realtà cupa e lacerata, da una ‘vita ai margini’ in cui l’unico potere della donna sembra la possibilità di usare il sesso e il corpo per il ricatto e la vendetta. Attorno a loro, un immigrato albanese, un operaio perverso, un padre fin troppo invischiato in percorsi di nazionalismo mistico che, mentre lo legano a un’ideologia violenta e xenofoba, gli prosciugano l’anima e ogni senso di responsabilità.

“Piccola patria è la patria dell’anima – spiega Rossetto – ed è anche un termine che si usa da sempre nel Triveneto, e parlo di tempi non recenti. La storia del film è stata concepita fin da principio come una tragedia classica, con un forte senso del ‘qui e ora’ e un tentativo forte di stilizzazione di personaggi e vicende. Non abbiamo mai pensato che potesse avere un lieto fine, anzi, per me doveva finire anche peggio. E’ stata la sceneggiatrice, a frenare i miei intenti. Comunque, l’amore cerca di vincere e venir fuori e il finale è aperto. Non è detto che sia drammatico. Sono cinematograficamente attratto dalle zone di confine – continua il regista – dove campagna e città si toccano e faticano a toccarsi. Il Triveneto ha una percentuale maggiore di situazioni di questo tipo:  molto velocemente si è passati a una cultura del lavoro di ordine industriale arrivando da una cultura contadina di lunga permanenza. I cambiamenti sono stati rapidissimi e in questa accelerazione si è creata lacerazione”.

Soddisfatte della resa anche le due brave e belle protagoniste, Roberta Da Soller e Maria Roveran: “Ho avuto ottime impressioni sulla resa finale – dice la prima – e in particolare delle mie parti. La psicologia dei personaggi, la profondità dei loro rapporti e dei conflitti esce perfettamente”. Più loquace la seconda, che interpreta anche, come cantante, alcuni brani della malinconica e lugubre nenia che fa da colonna sonora: “Un’esperienza fortissima, anche perché si parla della mia terra. Una terra che è legata al corpo, al linguaggio e alla voce. C’è stato un rapporto corale con il cast e il regista e una sperimentazione di ampio raggio. Terra, corpi e lingua ne escono desolati. Essendo di Favaro Veneto, è anche una storia legata alla mia esperienza personale”.

“La lavorazione non è stata classica – racconta ancora il regista – ho usato gli strumenti del documentario, dividendo il tempo del lavoro in maniera non canonica, per rendere più profondi i personaggi è dare sostanza alla profondità psicologica, senza cadere nello psicologismo puro. Per questo ho usato il dialetto, una lingua pre-materna che ti lega a qualcosa che precede te e la tua famiglia: così gli attori hanno abbracciato una comune appartenenza. Ho usato tecniche differenti: alcune scene le ho scritte desumendole da improvvisazioni precedenti, altre più blindate ma in sede di ripresa sono state cambiate, altre hanno avuto un percorso di qualche ora in un quadro di improvising fiction, legato anche alla location. L’ultimo aspetto è il tentativo di calare alcune scene in quadri di realtà non preparati. Anche questa è una forza possibile del documentario, la possibilità di lavorare su situazioni che ti si parano letteralmente davanti. Così abbiamo fuso realtà e finzione. Questo è stato possibile perché la troupe aveva una specifica formazione documentaristica, il che ha permesso un lavoro estremamente eterogeneo”.

Andrea Guglielmino
30 Agosto 2013

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