“Trame, il Sud in bianco e nero”, le mafie viste attraverso i cinegiornali Luce

L'immaginario propagandistico della Settimana Incom al centro dell'incontro promosso da Istituto Luce Cinecittà e Trame


COURMAYEUR – Dai cinegiornali della Settimana Incom sulle gesta, la cattura e la morte del bandito Salvatore Giuliano, nel 1950, al film di Gianfranco Mingozzi Con il cuore fermo Sicilia del 1965, passando per i filmati dell’Istituto Luce che documentarono le vicende del bandito La Marca e del brigante Musolino, di Rosario Candela e del mostro di Presinaci. È l’illuminante e suggestivo percorso di Trame, il Sud in bianco e nero, l’incontro promosso al Noir in Festival dall’Istituto Luce Cinecittà con il festival calabrese Trame, con la conduzione di Gaetano Savatteri e la partecipazione di Costanza Quatriglio, Armando Caputo, Toni Trupia, Tommaso De Pace, Gianrico Carofiglio, Carmelo Sardo e Giovanni Spagnoletti. Le preziose immagini sono state messe a disposizione da Istituto Luce Cinecittà a conclusione delle iniziative per i novanta anni del più importante archivio audiovisivo italiano.

Un inedito viaggio attraverso l’evoluzione della narrazione della criminalità organizzata tramite le immagini e le parole dei cinegiornali, in cui emerge in tutta la sua potenza l’influenza del linguaggio cinematografico sulla rappresentazione del fenomeno mafioso. “Nei cinegiornali sul bandito Giuliano vediamo un immaginario costruito su icone che rappresentano qualcosa di invisibile: la mafia – spiega la regista di Triangle – È un immaginario fatto di paesaggi, di volti, con il pescivendolo, le donne velate, il carretto siciliano: scene costruite a scopo propagandistico, impregnate di forzature semantiche”. Un metodo rappresentativo ingenuo e diabolico allo stesso tempo: “erano documenti filogovernativi”, commenta Savatteri, capaci di suggerire che, con la cattura di un criminale, si “metteva fine alle anacronistiche sopravvivenze del passato mafioso”.

Secondo Armando Caputo, presidente della Fondazione Trame, “Ci fu all’epoca una potenza di fuoco dello Stato ben rappresentata da quelle immagini: dall’ultimo brigante ucciso, raccontato come una vittoria definitiva, alla lotta seria alla ‘Ndrangheta sono passati decenni: nel frattempo la ‘ndrangheta in Calabria è diventata una potenza inimmaginabile, svelando l’enorme danno provocato anche da quella rappresentazione falsata”. Il regista Toni Trupia azzarda un “paragone con la narrazione giornalistica del caso di cronaca del piccolo Loris: è stata effettuata una forzatura di senso in cui qualsiasi indizio porta alla medesima conclusione, mostrando sempre la madre tra due poliziotti e rappresentandola quindi come arrestata’”.

I cinegiornali della Settimana Incom dell’inizio degli anni ’50 tracciavano comunque un affresco del Sud attraverso i suoi mali molto diverso da quello che arriverà più tardi, con il bellissimo documentario firmato da Giuseppe Ferrara nel 1966, Mafia d’Aspromonte, in cui al contrario la ‘ndrangheta viene definita come “uno dei pochi mezzi di affermazione personale dei cittadini calabresi, attanagliati dalla paura della vita in una terra condannata all’oblio sociale”. Lo scrittore Gianrico Carofiglio, che da consulente della Commissione antimafia coniò l’espressione “mafia liquida”, conferma che “la paura della vita, come suggerisce il documentario di Ferrara, è in effetti una delle verità profonde dietro il fenomeno mafioso. All’epoca non c’erano norme, né strumenti tecnici e investigativi per contrastarlo, c’era un problema culturale e di compromissione degli apparati dello Stato, soprattutto in Sicilia”.

Il finale dell’incontro è riservato alle incredibili immagini di Con il cuore fermo Sicilia, un’opera che, secondo Costanza Quatriglio, “mostra la potenza della grande letteratura, grazie al testo di Leonardo Sciascia, che incontra il grande cinema firmato da Mengozzi e coadiuvato da Zavattini”.

Michela Greco
11 Dicembre 2014

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