In the box: noir ‘da camera’ e aristotelico

In the box di Giacomo Lesina, distribuito da Istituto Luce Cinecittà in 15 copie nei maggiori capozona a partire dal 23 aprile è un noir low-budget ‘da camera’ che rispetta le unità aristoteliche di


Una giovane donna (l’intensa Antonia Liskova) si risveglia dentro un garage. All’interno di questo piccolo spazio, un’automobile esala anidride carbonica. Un gas che finirà per ucciderla. Ad averla chiusa nel garage è uno sconosciuto che sa ogni cosa di lei, del suo passato e che ogni tanto le telefona. In the box di Giacomo Lesina, distribuito da Istituto Luce Cinecittà in 15 copie nei maggiori capozona a partire dal 23 aprile è un noir low-budget ‘da camera’ che rispetta le unità aristoteliche di tempo, di luogo e d’azione. 

Già passato al Courmayeur Noir in Festival, il film, girato in inglese a Los Angeles,  è stato già venduto in Canada, Corea e Stati Uniti. ”Quanto siamo liberi? È una domanda che ci si pone spesso, ma a cui difficilmente riusciamo a dare risposta. Perché la maggior parte di noi – ha detto il regista con un lungo passato nel cinema come aiuto, tra gli altri, di Vanzina, Parenti, Achibugi e Paul Schrader, e ora, a oltre sessanta anni, al suo esordio dietro la macchina da presa – conduce una vita tranquilla, fatta di una routine che ci protegge, tiene a bada le nostre paure. E se la nostra esistenza, all’improvviso, sfuggisse al nostro controllo e finisse nelle mani di un altro? Uno sconosciuto. Una persona che conosce tutto di noi. Soprattutto le nostre debolezze, gli errori commessi nel passato, il poco valore che a tratti abbiamo dato alla nostra vita presi dalle nostre angosce. Qualcuno che sembra avere cattive intenzioni”.

Molte le suggestioni del film. Ad esempio un rimando – a quanto pare casuale – a Reazione a catena di Mario Bava, che sembra riecheggiare nel finale: “Ma non l’ho visto – dice Lesina – anzi non ho proprio guardato molti film di genere. Meno che mai prima di fare il mio film, temevo mi influenzassero. Il garage non è solo un’ambientazione utile a girare low budget, ma anche un simbolo delle nostre paure, che fondono influenze interiori con quelle che vengono dall’esterno. Nel film c’è molta violenza, soprattutto psicologica. E’ c’è un rapporto distorto tra genitori e figli. Quello che facciamo influenza la vita dei nostri eredi.  Nell’epoca dell’interruzione una voce estranea può facilmente intromettersi nel tuo pc o nel tuo cellulare, bloccarlo e maneggiarlo. Questa cosa mi inquieta. La radio era familiare, cullava. La tv ha iniziato a distrarci. Oggi possiamo avere migliaia di amici su facebook ma a fine giornata ci troviamo soli”.

“Volevamo che il film potesse essere anche facilmente esportato – dice il produttore Massimo Spano – ho lavorato come arredatore e scenografo a tanti film che si dicevano ‘di serie B’ (cappa e spada, poliziotteschi) ma che in realtà costituivano lo zoccolo duro del nostro cinema. E all’estero andavano fortissimo. Anche Tarantino li ha riscoperti. Non è stato facile. La troupe di tecnici è stata regolarmente pagata. Gli unici che ancora non ci hanno guadagnato siamo io, il regista e la protagonista. Abbiamo ottenuto l’Interesse Culturale Nazionale dal Ministero ma non un quattrino, lo abbiamo fatto interamente con le nostre forze. I distributori a cui lo proponevo volevano essere pagati per metterlo in sala. Invece l’Istituto Luce mi ha dato una mano. Hanno capito che esistono anche opere prime di genere e meritano spazio”.

“E’ stato faticoso – commenta Liskova – il ruolo è molto fisico e poi abbiamo recitato in inglese. Mi immedesimo nel personaggio perché anch’io come lei ho una figlia, che per lei è il motivo per cui continuare a combattere”.  Chiude il produttore con un simpatico aneddoto: “Durante la lavorazione sono andato a cena da un amico sulla Cassia e per un incidente mi sono ritrovato chiuso nel suo garage senza via d’uscita per 35 minuti. Pensavo di fare anch’io la fine del sorcio”.

Andrea Guglielmino
17 Aprile 2015

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