Paul Verhoeven: colpo di coda con stupro per l’olandese volante

Isabelle Huppert è protagonista di Elle, il film di Paul Verhoeven, regista olandese con un passato solido sia nel cinema autoriale che in quello commerciali


CANNES – In coda, infiamma la Croisette Elle, il film di Paul Verhoeven (regista olandese con un passato solido sia nel cinema autoriale che in quello commerciale, si ricordino su tutti RoboCop, Atto di Forza e Starship Troopers) con Isabelle Huppert tratto dal romanzo di  Philippe Djian. Huppert interpreta una manager di una casa produttrice di videogiochi dal carattere duro che conduce una vista sentimentale movimentata. Dopo che uno sconosciuto la violenta, la donna avvia una indagine per scoprire il responsabile. Applausi a scena aperta alla proiezione stampa di questa pellicola che mescola thriller e commedia nera e fa seguito a Black Book (2006) e a un progetto fallito su Gesù di Nazareth (Verhoeven è anche un attento studioso di cristologia, come ha dimostrato con il suo saggio ‘L’uomo Gesù’).

“Semplicemente – dice il regista – mi ha coinvolto il produttore,  Saïd Ben Saïd, che mi ha fatto leggere il libro. Non ci sono stati trucchi o compromessi”. “La qualità della materia prima – commenta Huppert – era straordinaria. La pellicola non cerca di dare spiegazioni, lascia solo ipotesi. Sicuramente ha una natura ambigua, come si confà a un regista eclettico come Paul, che ha lavorato tanto sia in Europa che in America. La sceneggiatura era fantastica e tutto quello che un attore poteva domandarsi era già contenuto lì dentro. Definirei il suo stile ‘dissonante’”.

“Inizialmente – continua Verhoeven – avevamo pensato di traslare il plot negli Usa, ma poi abbiamo capito che non funzionava e che l’ambientazione parigina gli avrebbe donato. Mi sono basato tanto anche sulla musica, in particolare Stravinskij. Amo la sintesi e il suo ritmo mi impedisce di inserire nella pellicola elementi che non servono, mi aiuta a essere ‘breve’. E’ continuamente proiettato in avanti. Del testo abbiamo modificato qualche elemento. La protagonista dirige un’azienda di videogiochi invece che un gruppo di sceneggiatori. Era tutto assai più visuale e mi ha permesso di citare qualche mia opera del passato come RoboCop o Starship Troopers. Mi è piaciuto lavorare in America tra gli anni ’80 e i ’90 ma ora non trovo più delle sceneggiature che mi interessino o rappresentino qualcosa di nuovo. Io faccio film perché mi piace farli, non per fare soldi. Altrimenti questo lavoro diventerebbe noioso. Qui c’è thriller ma anche tragedia e commedia, ed è una cosa che non avevo mai fatto”.

E ancora, sulla costruzione dei personaggi: “rappresentano in qualche modo la dimensione perversa che è in ciascuno di noi. Sinceramente non credo in questa parabola squisitamente americana secondo cui i personaggi si debbano ‘evolvere’. In fondo, nella vita, ciascuno rimane quello che è. Faccio le stesse cose che facevo a sedici anni e che facevano imbestialire i miei amici. Non ci sono sviluppi o evoluzioni, le cose accadono e basta. Non ho voluto dare spiegazioni freudiane o simili, non necessariamente una cosa è connessa all’altra, volevo solo che l’esposizione fosse più chiara possibile”. “Del resto – conclude Djian, autore del libro – io non sono uno psicologo e non faccio romanzi psicanalitici. E’ solo un modo di imparare a conoscersi”.

Andrea Guglielmino
21 Maggio 2016

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