La nostra Africa, tra sfruttamento e guerre tribali

Due immagini sconvolgenti dell'Africa sono in programma alla Mostra di Pesaro con Frammento 53 di Lodoli e Tribbioli e Covered with the Blood of Jesus di Tommaso Cotronei


PESARO – Due immagini molto diverse dell’Africa, ma altrettanto sconvolgenti, sono in programma alla Mostra di Pesaro con Frammento 53 di Federico Lodoli e Carlo Gabriele Tribbioli e Covered with the Blood of Jesus di Tommaso Cotronei. Il calabrese Cotronei, già al festival con Ritrarsi nel 2007, prosegue la sua ostinata e solitaria ricerca dalla parte degli ultimi, spostandosi dalla Calabria più arretrata economicamente e culturalmente alla Nigeria, terra di conquista per le grandi multinazionali del petrolio che sfruttano e inquinano il territorio del delta del Niger mentre la popolazione è relegata in un’economia di sussistenza che si basa in larga misura sul riciclo degli scarti dell’Occidente. Dal sapone per i piatti fatto in casa alle taniche di acqua o alle bottigliette riempite di benzina, i protagonisti del film, che prende il titolo da un adesivo attaccato su una barca, non possono mai liberarsi dall’infinita fatica della sopravvivenza come i sottoproletari di cui parlava Marx. Per loro è quasi impossibile accedere agli studi, troppo costosi e inconciliabili con la ricerca del pane quotidiano. Ed è etico e politico al tempo stesso il punto di vista dell’autore, che ci tiene a sottolineare il suo essere una cosa sola con il mondo che descrive, lui stesso povero per estrazione – figlio di un taglialegna – e per scelta (oggi campa vendendo libri per strada, perseguitato dalle multe). “Nulla di quello che mostro è inventato – spiega Cotronei – e per me conquistare la fiducia delle persone è fondamentale”. Il suo punto di vista sull’attualità globalizzata lo porta a formulare un’opinione sulle radici del terrore: “La Nigeria è un Paese molto pericoloso per i bianchi, che vengono assaliti perché si sa che vengono qui a sfruttare e depredare. E questa è anche la base del terrorismo. Ma i kamikaze sono vittime allo stesso modo degli occidentali, come diceva Pavese i morti sono tutti uguali”. Cotronei è un autarchico che lavora da solo, dalla produzione al montaggio, anche se in questo caso ad aiutarlo sul territorio c’era Susie, una giovane donna camerunense che oggi vive in Italia: grazie a lui ha ottenuto prima un visto turistico e poi lo stato di rifugiata politica. Non manca una nota polemica verso il sistema cinema italiano: “I miei film – dice ancora Cotronei – sono stati in Cina, a Parigi e Locarno, mentre in Italia da sette anni venivo respinto dai festival, forse perché sono un personaggio scomodo e fuori dai giochi”. Quanto alla scelta dell’Africa, che aveva già filmato in un’opera precedente, girata nel deserto del Sahara, “è il posto più povero del mondo e con le contraddizioni più stridenti. Ci sono grandi ricchezze e grandi risorse nelle mani di pochi. Questo accade in tutto il mondo ma qui è ancor più lampante”. E in futuro pensa di tornare in Calabria per raccontare come un adolescente possa diventare killer a pagamento in un contesto di abbandono e di assenza di cultura.

Frammento 53 che cita Eraclito – “Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi” – è invece un saggio filosofico sulla guerra vista nella sua dimensione universale, come un evento addirittura archetipico. I due giovani autori (classe 1982) hanno scelto la Liberia, paese segnato da conflitti tribali mai sanati. Così il film, prodotto tra l’altro dal Centre d’Art Contemporain di Ginevra, è un “cuore di tenebra” in cui sette generali ci obbligano, con le loro aspre testimonianze, ad aprire lo sguardo sulla natura più crudele e allo stesso tempo umana del conflitto. “Il nostro – spiega Lodoli – non vuole essere un film sull’Africa, ma su un fenomeno che riguarda anche noi stessi: la Liberia, con la sua storia, recente, le due guerre civili del 1989–1996 e del 1999–2003, ci ha offerto la possibilità concreta di realizzare la nostra idea partorita in Italia”. La popolazione di questo paese, nato con il ritorno in Africa degli schiavi liberati dopo la guerra civile americana, conta 16 tribù locali e una tribù formata dai discendenti degli ex schiavi statunitensi. “Abbiamo molto approfondito la loro cultura animista in due viaggi nell’Africa Occidentale, il secondo dei quali durato tre mesi e mezzo, con una permanenza nella capitale Monrovia ma anche un mese trascorso lungo il perimetro e sui confini. Ci è stato possibile attingere alla dimensione tradizionale che di solito non sono disposti a mostrare, perché si tratta di culture iniziatiche e segrete, legate a un pantheon di divinità naturali. Sono popoli guerrieri”. Qualcuno cita Joshua Oppenheimer e il suo The Act of Killing. “L’abbiamo visto prima di partire e ci è servito a prendere le distanze, anche se l’ho apprezzato molto. Ma non è un film sulla guerra, piuttosto sulla violenza politica e ha una forte connotazione psicologica che noi abbiamo evitato, come ogni irruzione della coscienza”. 

Cristiana Paternò
05 Luglio 2016

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