Split: quando il film ha una personalità nascosta

Uscirà il 26 gennaio con Universal Split, il nuovo film di M. Night Shyamalan, regista rivelazione dei primi duemila, esploso con 'Il sesto senso'


Uscirà il 26 gennaio con Universal Split, il nuovo film di M. Night Shyamalan, regista rivelazione dei primi duemila, esploso con Il sesto senso e autore di piccoli grandi fenomeni come Unbreakable, il suo secondo controverso film accolto male da critica e pubblico ma poi diventato un autentico cult con una fitta schiera di appassionati. Terminato il sodalizio con Bruce Willis, interprete di entrambe le pellicole, successi alterni (Signs, The Village, Lady in the Water) fino al clamoroso flop de L’ultimo dominatore dell’Aria che sostanzialmente ne ha minato la carriera lasciandolo in costante ricerca di riscatto.

E questa pellicola, magistralmente interpretata da James Mc Avoy nei panni di un pericoloso sociopatico affetto da sindrome di personalità multiple (ne ha oltre 23, di cui alcune molto pericolose), potrebbe essere la sua occasione. Di base, è un thriller, con al centro del plot il rapimento da parte del folle di tre ragazze adolescenti.

Ma scrivere di Split senza rivelare la verità sul film è veramente difficile, perché in questo caso la cifra stilistica più importante dell’autore di origine indiana – ovvero il ‘finale a sopresa’ che stravolge quanto visto fino ad allora – sale di livello assumendo importanti valenze metacinematografiche, superando ogni confine, giocando veramente l’unica carta che lo spettatore smaliziato e conoscitore dell’autore non si aspetta, sicuramente sorprendendo, ma anche lasciando sconvolti e perplessi, preludendo – o forse, chissà, vedremo, anche sulla base di quanto avrà successo, alludendovi ironicamente proprio a volersene distanziare –  a una ‘commercializzazione’ radicale di un cinema che fino ad oggi si era sempre tenuto in bilico tra l’esigenza di raccontare il fantastico con taglio moderno e quella di orientarsi su coordinate personali e non inquadrate in schemi precostituiti e familiari, nel bene e nel male.

Shyamalan – che come al solito si riserva un cameo in stile hitchcockiano –  lavora come un prestigiatore (risalendo alle origini stesse del cinema, che nasce, dopotutto, proprio come gioco di magia). Ha il carisma necessario per distogliere l’attenzione dello spettatore dal trucco e il tempismo giusto per rivelarlo quando fa più spettacolo. Quello che, in questo caso, gli si può rimproverare, è che, a fronte di una storia di tensione veramente ben costruita, grazie anche a una sceneggiatura molto solida, alla fine proprio in favore di quel twist finale il costrutto crolla, risultando sacrificato, scarno e, per certi versi, deludente. In definitiva, la sorpresa è grande, ma c’è solo quella e una volta svelata – e senza considerare il fatto chi non conosce il regista potrebbe non coglierla – il film rischia di non funzionare più.

Una strizzata d’occhio che non è solo una strizzata d’occhio e che rivela, fondamentalmente, la duttilità di una materia filmica che, esattamente come il protagonista di questa storia, ha più di una personalità. E non è detto che tutte ci debbano piacere.

Andrea Guglielmino
04 Gennaio 2017

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