Omero Antonutti e quell’odiato pastore sardo

A 40 anni dalla Palma d’oro di Padre padrone, il Trieste Film Festival rende omaggio al protagonista del film dei Taviani. “Quando andai in Sardegna dopo il festival di Cannes mi odiavano tutti"


TRIESTE. A quarant’anni dalla Palma d’oro con cui il Festival di Cannes premiò, nel 1977, Padre padrone dei fratelli Taviani, il 28. Trieste Film Festival rende omaggio a Omero Antonutti, attore poliedrico dal fascino discreto che nella sua vasta carriera, spesa tra cinema e teatro, ha potuto vantare collaborazioni con alcuni tra i più grandi e rinomati cineasti italiani e internazionali.
Impossibile elencare tutti gli autori con cui Antonutti ha lavorato dal suo esordio sul grande schermo, nel 1966, a oggi. Ma basta scorrere alcuni nomi e qualche titolo per dare conto almeno in parte di una carriera fuori dal comune: oltre ai Taviani basterà ricordare Ermanno Olmi (Il segreto del bosco vecchio) e Roberto Rossellini (Anno uno), Luigi Comencini (La donna delle domenica) ed Elio Petri (Le mani sporche), Fabio Carpi (Quartetto Basileus) e Marco Bellocchio (La visione del sabba), Michele Placido (Un eroe borghese), Franco Giraldi (La frontiera), Marco Tullio Giordana (Romanzo di una strage). E poi i “giovani” Paolo Virzì (N – Io e Napoleone), Riccardo Milani (Benvenuto Presidente!), Andrea Molaioli (La ragazza del lago).
Il lavoro rigoroso di Antonutti è stato ripagato da un grande successo di critica e pubblico, sia in Italia che all’estero, dove ha lavorato con Theo Angelopoulos, Villi Hermann, Carlos Saura, Spike Lee.

L’omaggio del Festival ha offerto l’occasione per presentare il volume “Omero Antonutti”, curato dal giornalista e saggista Guido Botteri (1927-2016), pubblicato da Comunicarte Edizioni e TsFF. Alternando ricordi in prima persona, fotografie e i contributi di amici, colleghi, critici e giornalisti, il libro ripercorre la carriera dell’attore, dalle origini alle prime esperienze teatrali, prima a Trieste e poi a Genova, fino al debutto sul grande schermo, passando attraverso le grandi prove nel cinema d’autore.
Prima della proiezione di Padre padrone, Antonutti ha speso parole affettuose per Guido Botteri, conosciuto alla Rai regionale Fvg agli albori del suo percorso artistico. “Se questo libro esiste – ha affermato davanti al pubblico del Teatro Miela – lo devo a lui e ad Anna Maria Percavassi, fondatrice del Festival. Entrambi insistevano per realizzarlo ma io ero molto refrattario all’idea. Dicevo: ma no, mi imbarazza e poi chi volete che ve lo pubblichi? Lo farete quando non ci sarò più. Invece oggi sono qui, il libro esiste, e sono loro a non esserci più”.

Durante l’incontro, moderato dal critico Sergio M. Germani, l’attore si è lasciato andare ai ricordi, in particolare legati al film dei Taviani che per primo gli ha dato una certa notorietà. “Padre padrone – spiega – nasceva per la televisione, destinato alla fascia di programmazione pomeridiana perché raccontava la storia di un padre che vietava al figlio il diritto all’istruzione. È stato un successo inaspettato, mondiale, ma i Taviani non ci hanno guadagnato un soldo. Perché il film è di proprietà della Rai”.
Ecco come andò: “Un giorno – prosegue l’attore – i Taviani lessero sul giornale un trafiletto su Gavino Ledda, pastore sardo che si era laureato in glottologia. Si incuriosirono, lessero il suo libro e ne scrissero una riduzione. La tv aveva acquistato il soggetto e si offrì di coprire tutti i costi di produzione. E i Taviani, che facevano un tipo di cinema rigoroso e non avevano mai a disposizione ampi budget, accettarono. Anche perché non si aspettavano un simile successo. Così facendo furono pagati, ma ora il film non gli appartiene più”.

Fu proprio per la capacità di dialogo tra cinema e televisione che, al Festival di Cannes, Padre padrone poté contare sul sostegno incondizionato di Roberto Rossellini, il quale – come se si trattasse di una sfida personale – riuscì a convincere la giuria di cui era presidente, ad assegnargli la Palma d’oro e il Premio Fipresci.
Fu il primo caso di un successo televisivo portato al cinema, fatto fino ad allora impensabile che si replicò, l’anno successivo, con L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.
“Quando incontrai i Taviani per la prima volta – racconta Antonutti – mi consegnarono il copione del film da leggere. Dovevo ripresentarmi l’indomani. Mi dissero che dovevo fare il pastore sardo. Ma mai avrei immaginato che intendessero affidarmi il ruolo principale. Rimasi colpito dalla storia, che oltretutto era vera, ma fu difficile calarmi nella parte di Abramo. Prima di girare ho cercato di capire da dove venisse quella sua violenza. La risposta era nella sua cultura contadina. Ma la vera violenza non era quella fisica, quanto l’aver negato la libertà al figlio”.

Fu difficile, per Antonutti, scrollarsi di dosso l’etichetta del “pastore sardo” negli anni a seguire. “Quando andai in Sardegna – ricorda – dopo il festival di Cannes, mi odiavano tutti. Ero considerato il responsabile per un tipo di rappresentazione di quelle terre che non andava loro a genio”. Gli aneddoti sull’ostilità che l’attore fu costretto a subire si sprecano: dalla proiezione riservata di La notte di San Lorenzo al Quirinale, dove Francesco Cossiga lo chiosò dicendo: “Padre padrone non ci è piaciuto! I panni sporchi noi li laviamo in casa”; alla volta in cui è stato accolto dai fischi in occasione della consegna della Ferula d’oro, a Cagliari. In tale occasione Antonutti replicò secco: “Non è un film sulla Sardegna, ma sull’uomo. Sulla violenza che si fa a un uomo privandolo della cultura”.

Antonutti e i Taviani hanno lavorato ancora insieme: nel 1982 per La notte di San Lorenzo, l’anno successivo, sul set di Kaos, infine per Good Morning Babilonia, del 1987. Sarà, come sostengono gli autori in una dichiarazione riportata sul volume di Botteri, perché Antonutti “è uno di quei veri attori cinematografici che calcolano con lucidità e acutezza la recitazione, ogni gesto o parola, in rapporto agli obiettivi, ai movimenti della ‘camera’, alle ipotesi di montaggio che la regia avanza in sede di ripresa. Una cosa noi due amiamo in particolare: la sua camminata, anzi la sua figura intera. Nel suo presentarsi alla ‘camera’, Omero – dicono ancora i Taviani – connota subito il personaggio con pochi tratti radicali. E con l’azzardo dell’estro, della fantasia. Soprattutto per questo, forse, per questa sua capacità di raccontare attraverso la fisicità del corpo, noi abbiamo voluto, noi abbiamo potuto costruire con lui figure tanto diverse”.

Beatrice Fiorentino
25 Gennaio 2017

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