Django Reinhardt, il riscatto della musica perseguitata

L'olocausto sinti, uno sterminio dimenticato, è evocato dal film d'apertura (in concorso) della 67ma Berlinale, Django, che racconta due anni cruciali nella vita del musicista manouche Jean Reinhardt


BERLINO – L’olocausto sinti, uno sterminio dimenticato, è evocato dal film d’apertura della 67ma Berlinale, Django, che racconta due anni cruciali nella vita del musicista manouche Jean Reinhardt meglio noto come Django. Nato nel 1910 in Belgio, divenne uno straordinario jazzista nonostante fosse stato vittima di un incendio della sua roulotte. Le gravissime ustioni saldarono insieme anulare e mignolo della mano sinistra: proprio per questo sviluppò una tecnica unica nel suonare la chitarra e uno speciale virtuosismo. Suonò con artisti del calibro di Stéphane Grappelli – con cui formò il Quintette du Hot Club de France – e con Duke Ellington negli Usa. Una vita romanzesca ed esuberante con molti viaggi e molte amanti, di cui il francese Étienne Comar (noto come produttore, qui al suo primo film da regista) ha deciso di raccontare solo un breve lasso di tempo, che lo vede preso nella trappola dell’occupazione nazista. Nella Francia del ’43, Django è ammirato come musicista anche dagli ufficiali tedeschi e il suo impresario preme per mandarlo in Germania per una tournée che lo dovrebbe portare nei più grandi teatri di Berlino, a suonare al cospetto di Goebbels e del Fuhrer stesso. Ma la sua arte è contemporaneamente malvista, sospettata di essere “musica negra” o degenerata, troppo swing e carnale. E’ sempre sul filo della deportazione – mentre i suoi connazionali vengono perseguitati e uccisi – e decide di fuggire verso la Svizzera, insieme alla moglie e alla onnipresente madre, con l’aiuto di Louise, la bella amante doppiogiochista. “Mi sono concentrato su questo periodo della sua vita – spiega Comar – perché non volevo fare un biopic classico, piuttosto mi interessava mostrare come un artista riesca a conservare la sua libertà in un momento storico drammatico. In questo senso non mi sono attenuto alle vicende biografiche in modo rigido perché non volevo neppure fare una specie di documentario, ad esempio il personaggio dell’amante è pura invenzione e racchiude in sé le molte frequentazioni femminili di Django. Comunque la sua famiglia ha apprezzato il film e pensano che io abbia colto il suo spirito”.

La voglia di raccontare questa storia nasce per Comar addirittura dai ricordi di infanzia: “Mio padre era un suo grande fan e spesso mi parlava di questo genio del swing e mi mostrava i suoi dischi. Io stesso faccio musica e mi appassiona la capacità degli artisti di astrarsi dal mondo reale per entrare nel loro mondo, è capitato anche a me: a volte chiudono gli occhi rispetto alla realtà ma arriva il momento di aprirli e a prendere posizione, se non con le parole almeno con l’arte stessa. Il ’43/44 non è la fase più nota della vita di Django, si conosce meglio il periodo prima della guerra, quando era in tour con Grappelli, ma è quella che meglio ci permette di capire come nasca l’impegno per un artista”. 

Ben interpretato da Reda Kateb, l’attore di origine berbera (da parte di padre, mentre da parte di madre ha ascendenze cecoslovacche e italiane) famoso per il suo ruolo ne Il profeta di Audiard, Django (per l’Italia acquistato da Good Films) ha un certo fascino – nonostante una narrazione piuttosto piatta – nelle scene musicali. “Ho preso parte alle prove con gli altri interpreti – racconta l’attore – che sono tutti veri musicisti, mentre io ero ‘doppiato’ da Stochelo Rosenberg”. E Kateb, piuttosto somigliante a Django con i baffetti e il sorriso malandrino, insiste anche lui sull’aspetto politico del film: “Ci siamo finalmente occupati di una comunità maltrattata dalla storia, abbiamo incontrato molti rom che ci hanno accolto a braccia aperte”. Interviene Cécile de France (Louise): “Hanno accettato di essere filmati perché il film rappresenta molto per loro, mostra quello che è successo durante la seconda guerra mondiale, la persecuzione che hanno subìto, una vicenda ben poco vista al cinema”. Comar considera il film attuale: “Certi elementi come le storie dei rifugiati e le persecuzioni legate alla razza o all’etnia sono ancora presenti, oggi più che mai. Gli zingari hanno vissuto tragedie terribili in Europa, sempre obbligati a muoversi, a cambiare paese, senza trovare un luogo dove vivere, per loro la musica ha rappresentato la vita, il senso stesso dell’esistenza”. E naturalmente è proprio questa vitalità a risultare odiosa per l’ideologia nazista: “Spesso – aggiunge il regista – un regime terrorista se la prende con l’espressione musicale, per i nazisti il meticciato tipico del jazz conteneva una chiara richiesta di libertà e una evidente ribellione da reprimere”.

Il film si chiude con l’esecuzione del Requiem per le vittime rom composto da Reinhardt. Eseguito nel ’45 subito dopo la liberazione non fu mai trascritto anche perché Django non sapeva né leggere né scrivere la musica. “Ma esprime la sua ammirazione per musicisti come Bach, Bartok e Debussy e la sua presa di posizione politica”. Per Reda Kateb “a volte l’arte può renderci ciechi, come scrive Frantz Fanon parlando della colonizzazione, ma qui c’è un artista che apre gli occhi, un uomo egoista che finalmente dona qualcosa agli altri”.

Tra le curiosità su questo straordinario personaggio la citazione fatta da Woody Allen in Accordi e disaccordi e l’omaggio di Sergio Corbucci che chiamò Django il personaggio principale del suo famoso film proprio in suo onore.  

Cristiana Paternò
09 Febbraio 2017

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