Aki Kaurismäki: “Restiamo umani, anche noi siamo profughi”

Molto applaudito in concorso The Other Side of Hope del regista finlandese, storia di due esistenze che si incrociano, quella di un profugo di Aleppo e quella di un commesso viaggiatore di Helsinki


BERLINO – Per la prima volta in concorso alla Berlinale, Aki Kaurismäki mette una seria ipoteca sull’Orso d’oro con il suo The Other Side of Hope, che in Italia uscirà il 6 aprile con CINEMA. Il nuovo film del quasi sessantenne cineasta di Orimattila condivide con Fuocoammare il tema bruciante delle migrazioni, ma racconta questo terribile dramma dei nostri tempi con lo stile stralunato e l’ironia apparentemente ingenua tipica di questo grande autore finlandese. Come in Miracolo a Le Havre, anche qui tutto inizia nel porto di una grande città europea, stavolta Helsinki. Dal carbone esce fuori un fuggitivo col volto annerito che sbarca a terra nella notte e va alla ricerca di una doccia. Il giorno dopo chiederà asilo e scopriremo che si chiama Khaled (Sherwan Haji) e che è scampato alla guerra – solo lui e sua sorella sono sopravvissuti di tutta la famiglia – è arrivato da Aleppo con ogni mezzo possibile: adesso ha solo voglia di stare in pace e ritrovare la sorella, che ha perso di vista alla frontiera con l’Ungheria. Contemporaneamente scorre la storia di Wilkstrom, un finlandese di mezza età (è Sakari Kuosmanen, attore feticcio di Kaurismäki, che in conferenza stampa ha strappato l’applauso cantando un tango finlandese). Wilkstrom lascia la moglie e il lavoro di rappresentante di camicie per seguire il sogno di gestire un ristorante. Trova il capitale necessario vincendolo a poker in una sola notte e rileva un locale scalcagnato (La pinta d’oro) compresi i tre che ci lavorano, una cameriera, un cuoco e un tuttofare, non sono granché ma insieme a loro cercherà di risollevare le sorti del locale. Il percorso di Khaled e Wilkstrom, inutile dirlo, è destinato a incrociarsi. Ma il film vuole più che altro mostrarci, senza proclami e con molta musica e stranianti atmosfere anni ’50, il mondo di oggi, dove la solidarietà e il razzismo convivono fianco a fianco. Un mondo né buono né cattivo, dove sono le singole persone a fare la differenza. E dove accanto al naziskin violento c’è qualcuno che ti soccorre in mezzo alla strada.

The Other Side of Hope
è il secondo capitolo di una trilogia sui porti e sulle migrazioni. “Per me che sono così pigro – racconta Kaurismäki – ci vuole come minimo una trilogia per raccontare qualcosa. Allora ecco un secondo capitolo sui profughi, ce ne sarà un terzo e sarà una commedia”. E’ evidente il senso politico del film e tutte le domande tornano su questo aspetto. Aki, che ha tutta l’aria di essere brillo anche se sono solo le 11 del mattino, non nega il suo impegno, pur buttandola nello scherzo: “Non voglio cambiare solo il pubblico, voglio cambiare il mondo. Beh, diciamo almeno l’Europa, almeno la Finlandia, almeno cinque o sei spettatori”. Poi continua: “Su cinque milioni di abitanti in Finlandia abbiamo trentamila profughi di tutte le età, sono persone che scappano da una guerra. Il cinema non ha il potere di fermare le guerre. Ma almeno possiamo dire a chi va al cinema che domani potrebbe capitare anche a lui, e allora è importante continuare a essere umani. Non so chi l’ha detto, ‘prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano…’, dice citando Brecht, ma senza ricordare bene la citazione. E a chi parla di islamizzazione dell’Europa, replica secco: “Ci sono dei normali cambiamenti culturali, non c’è l’islamizzazione. Bisogna tornare indietro al 1600, alla cacciata dei moriscos dalla Spagna voluta da Filippo III. Andava tutto bene, ma poi è arrivato questo editto. Spesso facciamo le leggi per nascondere i nostri crimini”.

E ancora: “Il razzismo è un crimine contro la cultura europea, non c’è più la cultura umana nell’ultimo secolo. La nostra cultura è una vernice molto sottile che si scrosta. Rispetto Angela Merkel, perché tra tutti i politici, è stata la sola che si sia interessata alla sorte di questi rifugiati. Se non coltiviamo la nostra umanità anche noi smetteremo di esistere. Anche noi siamo stati profughi…”.

Cristiana Paternò
14 Febbraio 2017

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