Milena Canonero: “Questo Orso è per Piero Tosi”

E finalmente venne il giorno di Milena. La costumista da Oscar che alla 67ma Berlinale riceve l'Orso alla carriera e lo dedica al maestro, grande collaboratore di Visconti e De Sica


BERLINO – E finalmente venne il giorno di Milena. La costumista da Oscar che alla 67ma Berlinale riceve l’Orso alla carriera, un riconoscimento prestigioso, di solito riservato a registi e attori, più raramente agli artisti che costruiscono il look del film, l’universo visivo e l’immaginario che è il marchio di fabbrica di una storia. Così Milena Canonero dedica il premio a tutti i colleghi e specialmente a Piero Tosi, il suo maestro, il decano dei costume designer, classe 1927, collaboratore di Luchino Visconti e Vittorio De Sica. E rivela: “Avrebbe dovuto andare lui a Londra, a lavorare con Stanley Kubrick per Barry Lyndon, ma non parlava l’inglese e non amava volare. Penso che avrebbe dovuto essere lui qui stasera”.  

Nata a Torino, formata alla storia e all’arte del costume a Genova, Milena si trasferisce a Londra all’inizio degli anni ’70 e lì incontra Stanley Kubrick e sua moglie Christiane attraverso il giornalista Riccardo Aragno, grande amico della famiglia Kubrick. Con Kubrick fa Arancia meccanica, nel ’71, e poi subito dopo il mitico Barry Lyndon, il suo primo Oscar vinto insieme a Ulla-Britt Søderlund. Hugh Hudson le affida i costumi di Momenti di gloria, storia di due atleti ambientata negli anni ’20, ed arriva il secondo Oscar. Viene nominata all’Academy Award altre cinque volte, per film come La mia Africa, Dick Tracy, Tucker – Un uomo e il suo sogno, Titus, L’intrigo della collana. Nel 2007 viene premiata per Marie Antoinette di Sofia Coppola, la figlia di Francis. Nello stesso anno lavora ai costumi per I Viceré di Roberto Faenza – che proprio qui a Berlino, all’Istituto Italiano di Cultura, è stato proiettato in suo omaggio ed è una delle poche cose italiane nella sua lunga carriera. Firma Il treno per il Darjeeling di Wes Anderson. Nel 2010 collabora con Joe Johnston per Wolfman. Nel 2015 vince il quarto Academy Award per un altro film di Wes Anderson, il lussureggiante e inventivo Grand Budapest Hotel, ed è la sua nona nomination.

Ed è proprio questo film, che ha inaugurato la Berlinale di due anni fa, a dare lo spunto d’avvio alla conversazione con i giornalisti, una conferenza stampa che deve essere costata molto alla timidissima Canonero, che ha chiesto di evitare foto e riprese video ravvicinate, quasi nascosta da un colbacco di pelliccia nero con una spilla appuntata al bordo. “Si comincia sempre allo stesso modo, con una sceneggiatura o un libro. Wes Anderson ama molto i dettagli, ama fare ricerche, ma ti lascia anche andare avanti da sola. E’ una persona simpatica, calorosa, che crea una specie di famiglia sul set. In qualche modo mi ricorda Stanley, anche lui faceva della troupe una seconda famiglia. Wes ama ispirarsi ad altri film, ad altri autori, nelle sue opere c’è sempre un sottotesto importante, si parla di relazioni, di umanità, a volte anche in modo ingenuo”.

Racconta alcune regole del suo lavoro, il partire sempre dalla testa ad esempio, un principio su cui anche Piero Tosi torna spesso. “Quando mi avvicino a un personaggio quella è la cosa più importante che dà il look, l’immagine, su quello elaboro i costumi e mostro al regista cosa ho in mente. A volte le idee vengono dalla pittura, come in Barry Lyndon, non voglio dire che copio, ma traggo ispirazione. Comunque dipende sempre dai registi, alcuni vogliono essere sorpresi, altri vogliono controllare tutto. Stanley, Francis e Wes, una volta che ti hanno indicato la direzione, si fidano totalmente”.

Milena si sente parte di un progetto complessivo: “Non mi interessa il costume in sé, ma far parte di qualcosa di unico. Ricordo che Stanley mi mandava a seguire il doppiaggio in francese perché il francese è la mia seconda lingua. Una volta mi ha mandato anche a controllare la proiezione a Cannes. Non c’erano steccati”. Il lavoro del costumista è più complesso di quello dello scenografo: “Perché non hai a che fare con le sedie ma con le persone. E poi gli spettatori ricordano più che altro i personaggi e tu devi passare da Dick Tracy a Il Padrino III nello stesso anno. In qualche modo sei responsabile della memoria visiva del film”.

“Per Dick Tracy – racconta ancora – ho lavorato a stretto contatto con il grande Vittorio Storaro”. Ma è Francis Ford Coppola, per lei, ad aver cambiato la storia del cinema. “Francis non discuteva mai dei costumi. Metteva insieme direttore della fotografia, scenografo, tutte le figure chiave, ci parlava della sceneggiatura ma senza mai entrare in questioni specifiche. Ci faceva vedere dei film che amava, come ispirazione. Ci diceva delle parole chiave, cose da catturare col nostro lavoro. Per Il Padrino III aveva pensato all’opera lirica, noi pensammo anche alla pittura di Caravaggio”.

Si considera fortunata. “Ho lavorato con i più grandi, ma soprattutto con Stanley che mi ha insegnato tutto. E’ stato un grande maestro, mi ha fatto capire che il cinema è un’opera d’arte”. Non ha rimpianti se non nella vita privata. Ma si sente ancora italiana con una carriera così internazionale, lei che vive a Los Angeles? “Ognuno di noi è quello che è. La famiglia, la cultura, sono parte del tuo bagaglio. Se non fossi andata in Inghilterra tutto sarebbe stato diverso. Non avrei incontrato Kubrick, Louis Malle, Francis Coppola, Alan Parker, Polanski, sono loro che mi hanno dato la possibilità di evolvermi. Ma non sono inglese né francese…”.

Cristiana Paternò
16 Febbraio 2017

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