Kong: Skull Island come il Vietnam

Il gorilla ruggisce ancora a partire dal 9 marzo


Se nel 2005 Peter Jackson rifaceva King Kong rivolgendosi soprattutto all’originale del ’33, il nuovo Kong: Skull Island, in uscita con Warner il 9 marzo per la regia del semi-esordiente Jordan Vogt-Roberts (all’attivo solo il film indipendente The Kings of Summer, presentato con molto successo al Sundance) potrebbe essere preso come la controparte attuale del remake che gli fece John Guillermin nel 1976, sotto la guida del produttore Dino De Laurentiis. Strabiliante nell’effettistica e nel comparto estetico, soprattutto a livello di concept, perde colpi invece sulla costruzione della trama e delle tematiche, non tanto per mancanza di idee, quanto per una mescita non particolarmente sapiente dei molti elementi in ballo. Ma andiamo per gradi. Il film è un reboot, non si lega a nessuno dei capitoli precedenti e risponde soprattutto a delle esigenze “di copione” stabilite ancor prima di stendere il plot. Primo, Kong doveva essere colossale, sostanzialmente per rendere paritetico il suo prossimo e annunciato scontro con Godzilla (arriverà nel 2020, ma prima ci saranno altri film e altri avversari da affrontare).

Se nelle precedenti incarnazioni l’altezza del gorilla variava – anche all’interno dello stesso film – dai 10 ai 18 metri, qui arriviamo ad altezze di più di 30. “Volevo che fosse un’apparizione spaventosa – ha detto il regista – non solo uno scimmione extralarge con movenze e sentimenti umani, ma un vero mostro per chi doveva dargli la caccia, o una divinità, per i nativi che dovevano coabitarci”. A tal proposito, questo Kong di sentimenti non ne ha proprio: tutta la parte di innamoramento/attrazione sessuale per la bella di turno qui è completamente assente. Kong lancia uno sguardo languido a Brie Larson, attraente fotografa pacifista, ma si ferma lì perché viene immediatamente distratto da un lucertolone che vuole combattere. In questo film i maschi fanno la guerra, e basta. E veniamo al punto due: il film doveva essere ambientato negli anni ’70 (proprio come quello di Guillermin, che negli anni ’70 è stato anche girato), perché si ambienta interamente nell’Isola di Kong (L’Isola del teschio, che dà appunto il titolo) e “era verosimile che un luogo come quello non fosse ancora stato scoperto in quegli anni – dice ancora Roberts –  la NASA ha poi lanciato il programma Landsat, monitorando la terra dallo spazio con i satelliti, e aggiornando le mappe. Il tutto mentre la società era in fiamme per gli scandali politici, la rivoluzione sessuale, la nascita dei movimenti a favore delle minoranze”.

E’ chiaro che il film tende a sfruttare il potenziale commerciale del franchise e infatti è prevista la costruzione di un intero universo basato sui grandi mostri, come per i super-eroi Marvel e DC. Quello che il mito perde in spessore lo guadagna, con questa pellicola, in citazionismo. Roberts gli anni ’70 li conosce e gli piacciono, per cui coglie l’occasione per infilarci un po’ tutte le citazioni possibili. Non solo Apocalypse Now, evidente già da certi movimenti del trailer e da alcune locandine, e soprattutto a livello fotografico – gira in Vietnam, e non casualmente – ma anche Duello nel pacifico (che è del ’68, ma la cui eco anti-razzista e anti-guerrafondaia non si era ancora spenta nel decennio successivo), Viaggio al centro della terra, i Black Sabbath a sostituire la Cavalcata delle Valchirie di Coppola sui bombardamenti, filmati in super 8, la fascinazione per le mete esotiche e i ‘Tristi Tropici’ con le fotografie in bianco e nero agli indigeni. E lo mescola poi con elementi che vengono direttamente dai più moderni videogiochi, come certe sequenze di sparatorie e combattimenti.

Il ritmo c’è, l’avventura pure, l’azione non manca, così come quel pizzico di ‘orrore’ che ci si aspetta da una sortita nella jungla (per quanto sia una jungla palesemente finta e patinata) ma è anche un po’ un pasticcio, che alle lunghe rischia di stancare. Resta la Bestia e va via la Bella, insomma, e in tutto questo qualcosa si perde. C’è una metafora evidente sulla guerra, che però fatica un po’ a uscire. Il personaggio interpretato da Samuel L. Jackson vede in Kong un nemico perché ha ucciso i suoi uomini (un po’ lo stesso rapporto che c’è tra il capitano Achab e Moby Dick). Ancora una volta si scontrano natura e cultura, ma chi è che ha attaccato per primo? Gli altri interpreti, tra cui spiccano in qualche modo John Goodman nel ruolo di un ricercatore ossessionato dall’isola e Tom Hiddleston nei panni di un esperto avventuriero, fanno sostanzialmente da contorno.

E anche se nel titolo non c’è il ‘King’, la funzione ‘regale’ di Kong è salda e preservata. E’ l’ultimo delle sua specie, non ha eredi (per ora) e bisogna sperare che viva a lungo perché grazie a lui si regge l’ecosistema. Il concetto viene poi esteso e potenziato nel finale: questa terra non appartiene all’uomo, c’erano altre creature a dominarla prima di noi, e se non le rispettiamo, se la riprenderanno. A suon di cazzotti. Come del resto hanno già fatto tante volte in una miriade di pellicole giapponesi che qui in Italia conoscono solo gli appassionati. Valga un esempio su tutti, dato che anticipa quello che accadrà: Il trionfo di King Kong (キングコング対ゴジラ Kingu Kongu tai Gojira ?, lett. “King Kong versus Godzilla”) del 1962 per la regia di Ishiro Honda, che simboleggia anche lo scontro di due grandi potenze, USA e Giappone. 

Andrea Guglielmino
03 Marzo 2017

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